di Oscar Santilli Marcheggiani

La scena che il tenente di vascello Carlo Orlandi, comandante del rimorchiatore Camogli, si trovò davanti era incredibile. Lo scoglio denominato Kamilonisi, 50 km a nord di Creta e circa 80 km dalla più vicina isola del Dodecaneso, allora territorio italiano, brulicava di gente. Centinaia di persone si accalcavano sulla brulla e accidentata superficie dell’isolotto. Naufragata sugli scogli, una vecchissima nave fluviale propulsa da grandi ruote. Chi diamine era tutta quella gente? E che ci faceva una nave fluviale nel bel mezzo del Mare Egeo, uno dei mari più insidiosi di tutto il Mediterraneo? Quella mattina del 20 ottobre 1940, verso mezzogiorno, un idrovolante italiano che sorvolava la zona aveva avvistato i naufraghi e prontamente comunicato la loro posizione al comando di Rodi. Fu così che Orlandi e la sua piccola nave vennero immediatamente inviati sul posto. Il sole era ormai basso sull’orizzonte quando la nave giunse in vista dei naufraghi. Orlandi si sentiva inquieto. Come fare a portare in salvo tutta quella gente con la sua carretta lunga appena 38 metri? Era una situazione altamente pericolosa. Il mare era disseminato di mine. Navi da guerra e sommergibili inglesi incrociavano nell’Egeo in prossimità del Dodecaneso. Egli si trovava inoltre in acque territoriali greche. Tiravano venti di guerra tra Italia e Grecia dopo che le relazioni tra i due paesi erano andate costantemente peggiorando a seguito dell’occupazione italiana dell’Albania. Pareva che Mussolini volesse la guerra con la Grecia (che infatti scoppiò di lì a poco) e Orlandi non ci teneva a diventare il classico bersaglio nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato…

Com’era iniziata tutta questa storia? “Vi sono tante vicende della seconda guerra mondiale e della persecuzione degli ebrei ancora misconosciute o coperte dall’oblio, per i motivi più svariati, dalla reticenza dei protagonisti alla scomparsa o distruzione della documentazione. Una di queste è quella dei 520 ebrei (famiglie, adulti e giovani, compresi circa 30 bambini), che il 18 maggio 1940 s’imbarcarono dal porto di Bratislava sul Danubio su uno scalcagnato battello fluviale a vapore, con le grandi ruote a mulino, denominato ‘Pentcho’, nella speranza di raggiungere la Palestina”. Così scrive nel 2013 su Pagine Ebraiche il giornalista Mario Avagliano. 

La vicenda è tornata alle cronache di recente grazie alla presentazione del documentario “Pentcho”, girato dal regista Stefano Cattini e presentato la scorsa primavera al Festival del Cinema Israeliano che si tiene annualmente a Milano presso lo Spazio Oberdan. 

La storia del Pentcho ricorda per molti aspetti quella delle tante carrette del mare cariche di disperati che, a prezzo di enormi pericoli, hanno affrontato in anni recenti la traversata del Mediterraneo partendo dalle coste dell’Africa e del Medio Oriente.  Allora come oggi gli oltre 500 occupanti del Pentcho tentavano di emigrare illegalmente. Essi provenivano da Slovacchia, Boemia, Germania, Austria, Ungheria, Polonia. Il loro leader, il sionista Alexander Citron, era riuscito ad ottenere un permesso collettivo di espatrio fasullo per il Paraguay. Il punto di partenza era il capoluogo slovacco Bratislava, occupato militarmente dai nazisti nell’ottobre 1938. Ed è facile capire la volontà dei passeggeri di emigrare: le persecuzioni contro gli Ebrei diventavano ogni giorno più feroci e la loro stessa sopravvivenza era minacciata. Fu così che essi scelsero un battello fatiscente accettando di versare anticipatamente su un conto svizzero la cifra di 100 dollari USA cadauno. Il piano era di discendere il Danubio attraversando Slovacchia, Ungheria e Romania fino al porto rumeno di Sulina, posto sul Mar Nero alla foce dell’immenso fiume, dove i passeggeri avrebbero trasbordato su una nave d’alto mare destinata a condurli nella Terra Promessa.  Il problema immediato era l’attraversamento di Slovacchia, Ungheria e Romania. Non solo Bratislava era occupata dai nazisti. L’Ungheria era alleata di Hitler e il suo governo era ferocemente antisemita. In Romania spadroneggiavano le bande armate della Guardia di Ferro fascista, che di lì a poco avrebbero conquistato il potere con Ion Antonescu. Insomma, i poveri emigranti, quasi tutti sprovvisti di denaro e mezzi di sussistenza, avevano di che preoccuparsi. Come se non bastasse, la nave “era uno spettacolo che faceva rizzare i capelli… un vecchio rimorchiatore danubiano che forse serviva una volta per il trasporto di bestiame o di grano…”. “Una barca davvero brutta, vecchia e malandata… in caso di tempesta sarebbe sicuramente affondata”.

Per quattro mesi e mezzo il battello discese il Danubio, obbligato a lunghissime soste e controlli ai passaggi di frontiera, ma senza che ad alcuno fosse permesso di sbarcare e di fare rifornimenti. “Mettemmo una grande scritta in ogni lingua per far sapere che eravamo affamati. Aggiungemmo anche la croce rossa”, racconta un sopravvissuto. Ma nessun paese voleva dare cibo, acqua o combustibile. I migranti potevano vedere i ristoranti e ascoltare la musica proveniente dai caffè sulle rive mentre morivano di fame.

Quando a settembre il Pentcho finalmente giunse sul Mar Nero dopo 1.870 km di navigazione fluviale, la nave che avrebbe dovuto attenderli se n’era andata da un pezzo. Sebbene fosse una decisione pazzesca (il battello fluviale aveva chiglia piatta ed era totalmente inadatto alla navigazione in mare), l’unica scelta che rimaneva era di proseguire il viaggio verso la Palestina con il Pentcho. Sulle onde del Mar Nero la barca rullava e beccheggiava paurosamente, tutti si aspettavano di affondare da un minuto all’altro. Invece riuscirono a passare i Dardanelli e ad avventurarsi sul Mar Egeo puntando verso sud. Su un’isola greca la popolazione finalmente offrì cibo e combustibile. Tuttavia rimarrà per sempre un mistero come la nave sia riuscita a navigare in mare aperto per circa 1.400 km da Sulina fino all’inevitabile drammatico epilogo. Pare che ad un certo punto la caldaia a vapore sia esplosa, e la nave senza più controllo sia stata scagliata dalle onde sugli scogli di un isolotto disabitato. Si trattava di Kamilonisi. Era il 10 ottobre 1940. La dea bendata ancora una volta aiutò i migranti. Forse un’onda di ritorno frenò all’ultimo istante l’impatto, certo la nave si adagiò sugli scogli senza spezzarsi e senza affondare. I fortunati passeggeri poterono tutti sbarcare sani e salvi. I più volenterosi si diedero a scaricare i materiali che avrebbero potuto essere utili a sopravvivere sull’isolotto. Kamilonisi era priva di vegetazione e i naufraghi cominciarono presto a soffrire di fame e di sete. Il sollievo per lo scampato pericolo si trasformò in cupa disperazione a mano a mano che i giorni passavano e le poche navi che transitavano all’orizzonte scomparivano senza avvicinarsi nonostante i frenetici segnali e le pire di legname date alle fiamme. Finalmente il 20 ottobre all’imbrunire arrivò il Camogli del comandante Orlandi. 

L’ormeggio non fu semplice perché Orlandi dovette evitare le mine disseminate in quel tratto di mare e non vi erano insenature al riparo dalle onde. Per fortuna le ore serali portarono calma piatta e il comandante decise di passare immediatamente all’imbarco dei naufraghi a cui il tripudio aveva messo le ali ai piedi. Miracolosamente tutti i 520 scampati riuscirono ad essere imbarcati entro le prime ore del mattino successivo.

La piccola nave stracarica di passeggeri giunse il 23 ottobre a Rodi dove essi rimasero fino ad inizio 1942. 

La buona stella continuò ad accompagnare la sorte degli avventurosi profughi. Varata la “soluzione finale” (ovvero la decisione dello sterminio totale del popolo ebreo), i nazisti aumentarono fortemente le pressioni sui governi alleati per la deportazione degli internati ebrei in Germania. Forse fu per una fortunata coincidenza o forse per intercessione di Pio XII, quello che è certo è che il comando italiano di Rodi decise di rispedire l’intero gruppo di scampati del Pentcho in Italia. A tale scopo furono organizzati due viaggi su navi della Croce Rossa tra febbraio e marzo 1942. Destinazione: il campo di internamento di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza. Questo campo, che venne definito “il primo kibbutz d’Italia”, era un’oasi di pace i cui internati erano liberi di muoversi indisturbati, e si dedicavano prevalentemente all’agricoltura. Tanto che molti di loro vi rimasero spontaneamente ben dopo la fine della guerra. 

La buona stella degli scampati del Pentcho purtroppo non riguardò tutti gli Ebrei che avevano trovato riparo a Rodi. Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i Tedeschi occuparono Rodi e i circa 1.800 internati ebrei che vi si trovavano furono tutti trasferiti in Germania nei campi di sterminio da cui tornarono solo in 150. Lo stesso comandate Orlandi, che rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, fu catturato e internato in un campo di prigionia in Germania.

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Il 5 maggio 2019 presso lo Spazio Oberdan di Milano è stato proiettato il film “Pentcho” sulle vicende che ho appena narrato. Dopo la proiezione salirono sul palcoscenico il regista Stefano Cattini e un arzillo vecchietto ultranovantenne che superò con due salti i gradini che portavano sulla pedana. Si trattava di Karl Haim Farkash, sopravvissuto del Pentcho. 

Karl raccontò amabilmente, con un misto di italiano e inglese, alcuni interessanti particolari dell’odissea della nave. Ma una cosa teneva particolarmente a dire: “Cattini ha raccontato una bella storia, ma ha omesso di celebrare un grande eroe italiano, il comandante Orlandi. Senza di lui, che affrontò con coraggio grandi rischi per salvarci, non sarei qui a raccontare questa storia. Voi Italiani non valorizzate abbastanza gli atti di eroismo dei vostri connazionali. Lo dico da ebreo: voi avete fatto per noi più di chiunque altro. Mentre Americani e Inglesi rispedivano indietro navi cariche di profughi Ebrei che furono poi massacrati dai nazisti, voi ci avete sempre accolti. Noi non lo dimentichiamo. Per gente come voi e come il comandante Orlandi abbiamo eterna gratitudine.”

 

One Response to L’ODISSEA DEL PENTCHO

  1. ennio ha detto:

    Grazie agli organizzatori dell’incontro ed anche a Maurizio che ha postato la notizia ed il contenuto. Magari era meglio sapere alcune cose con anticipo come la data ed il luogo dell’incontro, ma cosa fatta capo ha, cosi come va. Per me e per molti la vicenda era sconosciuta. ora occorre diffondere il testo e farlo conoscere sempre più anche ai terzi ed ai non amici di Israele così che capiscano ed ammirano i veri eroi italiani ebrei o non

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