Le due anime d’Israele
Il viaggio verso l’Egitto cominciò molte ore prima, in una Tel Aviv illuminata come in tempo di pace. Due giovani paracadutisti israeliani, Nahum Barnea e Israel Harel, varcarono assieme il canale di Suez, nella battaglia che cambiò le sorti del medio oriente. Dieci giorni dopo l’attacco a sorpresa della Terza armata egiziana nel Sinai, Harel e Barnea, sotto il comando di Ariel Sharon, aggirarono le linee nemiche rovesciando le sorti della guerra. Sappiamo come andarono le cose: lo sfondamento delle linee israeliane, l’angoscia di non “tenere”, di essere ricacciati in mare, come avevano promesso Nasser nel 1967 e Sadat nel 1972, il cedimento dell’Europa al ricatto arabo e l’invito a Israele di ritirarsi dai Territori, come se per Israele si trattasse di una provincia in più o in meno e non d’una questione di vita o di morte. Da allora i “Territori occupati” fiatano sul collo di Israele un enigmatico destino.
Oggi Barnea e Harel sono su fronti opposti: il primo è il più famoso giornalista israeliano, firma di punta di Yedioth Ahronoth e arcinemico dei coloni e di Bibi Netanyahu; il secondo è l’abitante degli insediamenti più noto della stampa israeliana. Harel ha, infatti, una rubrica storica su Haaretz, il giornale della sinistra intellettuale, da quando perorò la causa delle colonie assieme ai due più grandi poeti israeliani, Nathan Alterman e Uri Zvi Greenberg.
Barnea e Harel sono le due anime opposte di Israele, laico e pragmatico il primo, religioso e ideologico il secondo. Con loro parliamo dei territori su cui la Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, ha appena varato la legge più controversa che legalizza le case costruite su terre contese ai palestinesi. “Non c’è visione né dibattito su cosa fare dei territori”, dice al Foglio Barnea, che ha perso un figlio in un attentato durante la Seconda Intifada. “La domanda non è se queste case siano legali, ma un’altra: annettiamo i territori o ci ritiriamo? Non puoi lasciare che gli israeliani ci vadano a vivere mantenendo i territori sotto un regime di occupazione militare”. Perché non sono stati annessi? “Paura della demografia e che il mondo ci condanni. Non siamo la Cina che annette il Tibet. Siamo una potenza regionale. Non possiamo permettercelo. Così abbiamo colonizzato e usato quelle terre come moneta di scambio”. Israel Harel, per vent’anni presidente del Consiglio dei coloni, non potrebbe essere meno d’accordo. “Non puoi cambiare la terra come se fosse un’auto usata”, dice Harel al Foglio. “Siamo sopravvissuti come popolo ebraico per tornare a Sion. Il nord Italia, il Trentino, apparteneva agli austriaci, ma nessuno di voi darebbe indietro quelle regioni”.
Entrambi i movimenti, “Pace Adesso” e i coloni, nacquero allora, sull’onda del terrore della guerra del 1973, convinti ambedue di portare il verbo a un paese allo sbando. Per la sinistra, il peccato d’Israele era “l’intossicazione del potere”, i Territori, Moshe Dayan che diceva “fra la pace senza i territori e i Territori senza la pace io preferisco la seconda opzione”. Per la destra religiosa, il peccato era l’ingratitudine, aver ignorato l’occasione offerta nel 1967 di ripristinare l’integrità della nazione. Fu allora che Yossi Beilin, il rampollo di una famiglia religiosa, abbandonò la kippà per diventare la colomba degli accordi di Oslo. In quei giorni, Israel Harel avrebbe compiuto il percorso inverso, andando a fondare Ofra, la prima colonia, nel cuore della Cisgiordania.
Ieri tanti alleati di Israele, oltre ovviamente all’Unione europea e alle Nazioni Unite, hanno criticato duramente la legge che retroattivamente legalizza quattromila case ebraiche nei Territori. Secondo Nahum Barnea, lo status quo nei Territori non durerà a lungo: “E’ questo il fallimento del governo. Da un lato il premier Netanyahu si dichiara a favore dei due stati, dall’altro il governo cede alla lobby dei coloni. La Knesset ha approvato una legge che apre la strada all’annessione. Preferirei un governo che si dichiara a favore dell’annessione. Ma l’annessione comporterebbe di dare la cittadinanza israeliana a due milioni di palestinesi. Attualmente i palestinesi vivono sotto una ‘autonomia’, ma con l’esercito che controlla i territori. Questo non può continuare all’infinito. L’annessione sarebbe la nascita di uno stato unico”. Cosa sono per lei, i territori? “Li vedo dalla mia finestra a Tel Aviv, sono vicini, non è come andare in Abissinia dall’Italia. E’ vero quindi che ritirarsi sarebbe un rischio per la sicurezza, ma restare è un rischio maggiore. I territori sono diventati un problema, più che una risorsa. Israele è un grande successo dopo settant’anni, la vita qui è migliore che in molti stati occidentali per tanti aspetti, ma il conflitto con i palestinesi mette a rischio questi successi”.
Israel Harel è nato Hasenfratz prima della Shoah in quella parte di Romania nota come Bucovina del nord, la terra del poeta Paul Celan. “Se smetti di pedalare, cadi”, dice Harel a giustificazione che gli insediamenti vadano avanti. “Dobbiamo insediare altri ebrei, costruire, è questo il sionismo. Quarant’anni fa, quando fondai Ofra, sognavamo di portarci un milione di ebrei e di edificare dieci città. Oggi ci dobbiamo accontentare di mezzo milione di ebrei e di tre, quattro grandi città, come Maaleh Adumim. Nahum Barnea appartiene a quegli ebrei che hanno la mentalità dell’esilio. Dopo tanti anni, il senso ebraico di inferiorità sarebbe dovuto estinguersi, invece sopravvive. Senza la Giudea e la Samaria, Israele non ha diritti ad alcuna terra. I territori sono solo un aspetto di una più grande questione: siamo venuti qui come rifugiati o come popolo sovrano? In molte parti della Diaspora oggi un ebreo sarebbe più al sicuro che in Israele. Siamo qui per avere un posto sicuro? Allora è meglio andarcene. Israele è in pericolo. E non siamo venuti a vivere in un ghetto”.
Harel non è d’accordo con Barnea neppure sull’annessione totale: “Dobbiamo annettere soltanto le zone dove ci sono gli insediamenti. Poi, un giorno, si concretizzerà l’‘opzione giordana’: la monarchia di Hussein si trasformerà in una repubblica a maggioranza palestinese e creeremo un corridoio con la Cisgiordania”.
Ma come farete a convincere l’Olp? “Ci penseranno un milione di ebrei che vivranno nei Territori a convincerli. In Tanzania ho visto leoni divorare prede deboli, ma arretrare di fronte a un altro animale feroce. Non dobbiamo esitare, il terrorismo continuerà, ma il progetto palestinese fallirà. Un giorno i palestinesi capiranno che non torneranno mai a Haifa, Giaffa, Acco. Ci sono ventidue stati arabi e un solo stato ebraico. Deve rimanere così. La sinistra di Barnea sogna il giorno in cui i palestinesi si accontenteranno della Giudea e della Samaria. Non lo faranno mai”.
Molti in Israele ritengono che, così come c’è una cospicua minoranza araba nello stato ebraico pre-1967, non dovrebbe esserci problema se israeliani intendono restare a vivere in uno stato palestinese. “Scordatevelo”, conclude Harel. “Non vivremo mai sotto un regime dell’Isis o di Hamas. Verremmo massacrati come accadde agli ebrei a Gerusalemme nel 1921 e a Hebron nel 1929. Soltanto i pacifisti e gli scrittori scollegati dalla realtà, come Abraham Yehoshua, possono pensare che gli ebrei rimarrebbero sotto controllo palestinese. Nessun ebreo sano di mente lo farebbe. Siamo venuti qui per essere indipendenti, altrimenti sarebbe meglio tornare a vivere in Italia”.
Giulio Meotti, Il Foglio, 9/02/2017
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