Era il 13 novembre 2015. Il concerto degli Eagles of Death Metal era appena cominciato. E pochi istanti dopo aver intonato la canzone “Kiss the Devil” un gruppo armato legato allo Stato Islamico entrò all’interno del Bataclan, famoso locale parigino molto frequentato nel fine settimana, e trucidò 93 persone. La cronaca di quei giorni la ricordiamo tutti. Tutti ricordiamo dove eravamo quella notte. Tutti, almeno per un secondo, ricordiamo che quel giorno abbiamo pensato che, come sempre, ma quella volta più delle altre volte, potevamo esserci noi lì, potevano esserci i nostri figli, potevano esserci i nostri amici. Tutti ricordiamo quel giorno.

Ma come spesso capita, quando il tempo passa, le emozioni non si perdono ma le riflessioni sì. E per questo, a un anno dal Bataclan, il Foglio ha scelto di organizzare una giornata importante per mettere a fuoco quella che ci sembra sia la lezione più grande che ci arriva dalla striscia di fuoco e di sangue che nell’ultimo anno ha accompagnato le nostre vite: l’Europa non può più permettersi di considerare la minaccia del terrorismo islamista come se fosse qualcosa che vive nella categoria di ciò che è straordinario ma deve mettersi in testa che la minaccia del islamismo radicale è una minaccia potenzialmente quotidiana che non deve cambiare le nostre vite ma che deve certamente cambiare il nostro modo di ragionare attorno al grande tema del nostro secolo. Ovvero sia: come si può vivere in modo ordinario anche in un contesto in cui la minaccia del terrorismo non è più qualcosa di straordinario? Per farlo esiste un solo modo: allargare metaforicamente i confini dell’Europa e trasformare un paese che da anni vive ogni giorno con la minaccia dell’islamismo estremista alle porte, ovvero Israele, in un modello di vita, sia dal punto di vista strettamente culturale sia dal punto di vista della sicurezza nazionale.

Non c’è vera lotta all’islamismo radicale senza la consapevolezza concreta che la vera frontiera dell’Europa oggi deve essere considerata Israele e per questo giovedì 16 novembre, a Roma, a partire dalle ore 17 al Tempio di Adriano, a Piazza di Pietra, il Foglio ha scelto di organizzare un dibattito al quale crediamo molto partendo proprio da questo tema, e con alcuni ospiti importanti e trasversali, che verranno stimolati dal nostro Giulio Meotti. Ci saranno lo scrittore Boualem Sansal, algerino, musulmano, autore di un libro scandalo (“2084, la fine del mondo”) con il quale ha denunciato il pericoloso virus della sottomissione dell’occidente all’islamismo radicale. Ci sarà  l’ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Ci sarà il blogger palestinese Waleed Al-Husseini, giovane palestinese più volte arrestato e torturato dalle autorità palestinesi per le sue critiche al fondamentalismo islamico, che in Francia ha creato un centro di aggregazione per denunciare gli orrori della sottomissione all’islam radicale, il “Conseil des ex-musulmans de France”. Ci sarà il grande storico Benny Morris, l’Arcivescovo di Ferrara monsignor Luigi Negri, l’Imam francese Hassen Chalghoumi, l’archeologo Gabriel Barkay, gli autori Bat Ye’or e Bruce Bawer, l’antropologa Maryan Ismail e ci sarà anche un contributo del presidente emerito della repubblica italiana Giorgio Napolitano.

Benjamin Netanyahu, in un famoso messaggio profetico consegnato a un emittente francese due anni fa, ricordò che la guerra di Israele contro il terrorismo islamico non è solo la guerra di Israele ma è anche la guerra della Francia ed è la guerra di tutta l’Europa. “Se riescono qui, e se si continua a criticare Israele invece che i terroristi, e se non si è solidali contro questa peste chiamata fondamentalismo islamico, il terrorismo arriverà anche in Europa”. Aveva ragione. E un anno dopo il Bataclan, non c’è modo migliore per spiegare il mondo in cui viviamo ricordando una questione semplice e più che mai attuale: oggi Israele siamo noi.

Il Foglio, 15/11/2016

 

 

 

 

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