E’ Gerusalemme la capitale di Israele.
Testata: Corriere della Sera
Data: 27 novembre 2014
Pagina: 31
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Stato palestinese: perché è pericoloso il riconoscimento»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/11/2014, a pag. 31, con il titolo “Stato palestinese: perché è pericoloso il riconoscimento”, l’analisi di Bernard-Henri Lévy.
La traduttrice Daniela Maggioni, nella versione italiana dell’articolo che riproduciamo, opera un vistoso errore, che difficilmente può essere considerato non voluto: “Les gouvernements de Jérusalem” diventano “I governi di Tel Aviv“, e non serve conoscere a fondo la lingua francese per accorgersi del pessimo lavoro della traduttrice (potete leggere la versione originale dell’articolo alla paginahttp://laregledujeu.org/bhl/2014/11/24/israel-la-palestine-et-le-parlement-francais-qui-veut-faire-l%e2%80%99ange-fait-la-bete/).
Invitiamo i lettori a scrivere al Corriere della Sera, protestando per questa evidente frode nei confronti della realtà, ancora una volte in funzione anti-israeliana. In questo modo non si riconosce, infatti, Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.
Ecco l’articolo:
Bernard-Henri Lévy
Da quasi 50 anni sono a favore della soluzione dei due Stati. Ma il riconoscimento unilaterale della Palestina da parte del Parlamento francese sarebbe una cattiva idea, per varie ragioni.
1) Hamas. II suo Statuto e il suo programma. II fatto che amministri, in attesa di ulteriori informazioni, uno dei territori costitutivi dello Stato che si vuole riconoscere senza indugio; e il fatto che abbia come dottrina la necessaria distruzione di Israele. Non si può riconoscere, fosse pure simbolicamente, uno Stato dove la metà del governo pratica la negazione dell’Altro. Non si può riconoscere, soprattutto simbolicamente, un governo dove il sogno di metà del ministri sarebbe di annientare lo Stato vicino. Si tende la mano al proprio popolo, certo. Lo si aiuta. Si appoggia e si rafforza l’altro partito, quello di Abu Mazen, lo si incoraggia a rompere l’alleanza contro natura che esso ha stretto. Ma il tentativo rimane in sospeso finché l’alleanza non viene rotta, o finché Hamas resta quello che è e si riconosce in uno Statuto che ordina a tutti i musulmani di «uccidere» gli ebrei, cercandoli fin dietro le rocce e gli alberi dove «si nascondono» (articolo 7); finché si dichiara (articolo 13) che «le pretese iniziative» e le «soluzioni di pace» che, come l’attuale progetto francese, dovrebbero «regolarizzare la questione palestinese», vanno «contro» la «fede».
2) II momento. La spinta mondiale del jihadismo. II fatto che la società politica, e purtroppo civile, palestinese si mostri di nuovo, al di là della stessa Hamas, poco chiara sul problema. Non parlo di Abu Mazen, che ha condannato l’attentato del 18 novembre, costato la vita a 5 persone, in una sinagoga di Gerusalemme Ovest. Ma parlo dei suoi alleati del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che l’hanno rivendicato. Parlo del jihad islamico e, ancora, di Hamas che l’hanno applaudito. E penso alle migliaia di giovani che, avuta la notizia, sono scesi in piazza per lanciare fuochi d’artificio e rallegrarsene. Forse un giorno una maggioranza di israeliani riterrà che il modo meno inefficace di proteggersi contro tale situazione sia una separazione netta. Ma sarà una loro decisione, non quella di un Parlamento spagnolo, inglese, svedese o, adesso, francese, che improvvisa una risoluzione raffazzonata, mal impostata e, oltretutto, incoerente. Non si può inorridire per le decapitazioni in Iraq e ritenere trascurabili gli omicidi a colpi di coltello e di ascia in Israele. Non si può, qui, rifiutare la retorica della scusa («i jihadisti partiti per la Siria sono poveri disgraziati, vittime del malessere sociale…») e, là, accettarla («l’assassino è un umiliato, vittima dell’occupazione…»). Non si può, da una parte, rafforzare l’arsenale legislativo che permette, in Europa, di lottare contro la cieca violenza e, dall’altra, votare una risoluzione che equivale a dire «vi ho capito» a coloro che si lanciano tra la folla con automobili-ariete sognando una terza Intifada. Ci sarà uno Stato a Gaza e a Ramallah. E’ interesse di Israele ed è diritto dei palestinesi. Ma abbiamo fondate ragioni di immischiarci solo se chiediamo uguali sforzi a una parte e all’altra: dall’Anc sudafricano al Pkk curdo passando per l’Irgun di Begin, la Storia è piena di organizzazioni terroristiche poi rinsavite. Ci si aspetta dai gruppi palestinesi che seguano lo stesso itinerario, ed è anche a questo che devono dedicarsi, in Francia, gli uomini e le donne di buona volontà.
3) Nessun osservatore onesto può ignorare che da entrambe le parti resta del cammino da compiere. Nessun difensore della pace può negare che i torti sono da attribuire sia ai governi di Tel Aviv [nell’originale francese: di Gerusalemme, ndr] — che da Rabin a Netanyahu non hanno mai rinunciato alla politica di insediamenti — sia alla direzione palestinese, che oscilla fra l’accettazione del fatto israeliano e il rifiuto di qualsiasi presenza ebraica in terra araba. Ebbene, è proprio quel che negano i sostenitori del riconoscimento unilaterale. È proprio quel che dimenticano quando ripetono che «non se ne può più», che «è urgente smuovere le cose» o che è necessario un «atto forte» capace di «far pressione» e «sbloccare la situazione», e non trovano altro «atto forte» se non quello di imporre a Netanyahu II loro Stato palestinese non negoziato. L’ ultimo rimprovero da fare ai sostenitori del riconoscimento unilaterale è proprio questo: il loro ragionamento presuppone che esista un solo blocco, quello israeliano; un solo protagonista su cui far pressione, Israele; e che, dal campo palestinese, non ci sia da aspettarsi nulla (non muovetevi; non prendete iniziative; soprattutto non chiedete che sia dichiarato caduco, per esempio, lo Statuto di Hamas che trasuda, ad ogni riga, odio per gli ebrei; poiché il vostro Stato lo avete)… Non sappiamo se a prevalere sia l’ostilità nei confronti di Israele, il disprezzo per i palestinesi o, semplicemente, la leggerezza. Ma una cosa è certa. Senza condivisione delle responsabilità, non ci sarà condivisione del territorio; esonerando uno dei due campi dal suo compito storico e politico, si crede di voler la pace, ma si perpetua la guerra.
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