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Riportiamo da SHALOM n°3 di marzo, a pag. 12, l’articolo di Ugo Volli dal titolo “Attenti a chi vorrebbe Israele come Stato puro e perfetto”.

 

Ugo Volli

Uno dei  fatti che non può non colpire chi si occupa di Israele, e naturalmente è molto commentato, è il grado di inimicizia e di odio vero e proprio che lo colpisce nella società contemporanea, soprattutto negli ambienti politici, giornalistici, intellettuali. Pur essendo la società israeliana di grande successo economico, sociale e culturale, pur avendo una natura democratica profonda, pur rispettando le sue minoranze e gestendo i conflitti coi nemici che la circondano in maniera da ridurre al minimo possibile la violenza, pur non avendo per dimensioni, popolazione, risorse naturali la possibilità materiale di diventare una potenza aggressiva, Israele è il solo stato al mondo ad essere continuamente delegittimato, demonizzato, boicottato, accusato nelle istanze internazionali di colonialismo e imperialismo, trattato dalla stampa e dai politici anche dei paesi amici come se fosse un pericolo pubblico, con un governo sempre etichettato di “estremismo”, comunque composto. Anche in questi anni in cui Israele è stato palesemente il luogo più pacifico e tranquillo del Medio Oriente, manifestazioni e boicottaggi si sono rivolti contro di lui, ignorando luoghi come la Siria, la Libia, l’Egitto, l’Iraq devastati da terribili guerre civili.


Richard Goldstone, Shlomo Sand

Che tutto ciò venga dai nemici dell’ebraismo è comprensibile, anche se certamente inaccettabile. Il fatto è però che molti ebrei di diverso orientamento e competenza hanno sostenuto e sostengono posizioni in diverso grado modo analoghe. C’è chi accusa Israele di essere un o stato criminale, razzista, che pratica l’apartheid (Chomsky e Falk e Goldstone, i Naturei Karta e qualche petulante loro imitatore nostrano). C’è chi nega l’esistenza del popolo ebraico, magari per ridurlo a una religione in cui non crede e distaccarsi così da esso (Shlomo Sand) in modo da sentirsi solo internazionale e interculturale. C’è chi si limita a deplorare la presenza dei “coloni” (“non sono nostri fratelli”) e magari anche degli “ultraortodossi”, accettando solo un pezzo di Israele, quello “laico”, di cui ignorano però le radici. C’è chi spiega che non c’è nessun legame fra ebraismo e sionismo e si attribuisce il diritto, anzi il dovere di essere ebreo e antisionista assieme (a livello internazionale studiosi noti come Butler e Boyarin, anche in questo caso con qualche imitatore locale). C’è chi condanna “il governo” e “le politiche” e non in linea di principio lo stato, peccato che si tratti di tutti i governi e di tutte le politiche effettive. C’è chi aderisce alle rivendicazioni palestinesi, considera giusto il riarmo iraniano, appoggia le flottiglie. Chi si limita a voler “costringere” Israele alla “pace”, cioè alla resa alle posizioni palestinesi, naturalmente “per il suo bene”. Molte di queste posizioni si intrecciano e si mescolano variamente. Ma infine ci sono anche gli “utopisti”, che possono condividere le posizioni che ho citato, ma la condiscono con un punto di vista morale: trovano sbagliata, intollerabile, disgustosa la situazione attuale, e che vorrebbero un Israele puro e perfetto. Poiché la critica degli altri, in questo articolo vorrei occuparmi soprattutto di costoro.

Perché questi atteggiamenti? Anche qui, bisogna distinguere. C’è una parte che si adegua all’antisionismo circostante, come nell’Ottocento moltissimi ebrei espressero luoghi comuni antisemiti, a partire da Marx per arrivare al nostro Lombroso. Questo adeguamento può essere interessato: certamente un ebreo che si dichiari antisionista o “critico” ha più probabilità di piacere a un pubblico che condivide i suoi pregiudizi, di ottenere rubriche sui giornali, interviste a dittatori arabi, platee politically correct plaudenti, premi letterari, cattedre universitarie e incarichi nelle organizzazioni internazionali. O può essere semplicemente la subordinazione alle correnti di opinione che purtroppo capita a tutti. Non mi interessa però qui discutere di questi personaggi.


Yeshayahu Leibowitz, Martin Buber, Yehuda Magnes

Quel che incuriosisce e preoccupa sono altre posizioni, personalmente certo più rispettabili, ma certamente pericolose, quelle che ho chiamate utopistiche che fino a prova contraria vanno attribuite a un sentimento di stima e di amore se non per il popolo ebraico in carne ed ossa, almeno per una sua immagine utopica, trovata nella storia, nella Torah, nella filosofia. Alla base sta l’idea più o meno messianica che gli ebrei non possano e non debbano essere un popolo come tutti gli altri nemmeno nella loro organizzazione politica, ma debbano vivere in uno stato di perfezione che sia di esempio a tutti – o rassegnarsi all’esilio e alla schiavitù. O santi, nel senso cristiano di perfetti, non in quello ebraico di separati, o schiavi, senza via di mezzo. Queste posizioni sono alla radice dell’antisionismo haredì, di cui i Naturei Karta sono solo la punta più visibile (e fastidiosamente esibizionista) dell’iceberg, ma che coinvolge i molto più numerosi chassidim di Satmar e molti altri almeno parzialmente: se non guidati direttamente dal Messia, e dunque dalla volontà divina in seguito a un raggiunto stato di purezza del popolo, insediarsi in Israele non solo è inutile ma sbagliato, fare uno stato è contrastare il decreto divino. Da posizioni molto diverse, un grande maestro di Torah come Yeshayahu Leibowitz prese posizioni violentissime contro lo stato di Israele, fino a definire “nazista” Tzahal. E in maniera ancora diversa, senza arrivare a questi eccessi, Martin Buber (prima di lui Ahad Haam) polemizzò duramente contro le scelte politiche che portarono alla costituzione dello stato di Israele, giudicandole moralmente dubbie: una posizione condivisa dal primo rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Yehuda Magnes, che arrivò a fare una campagna in America per dissuadere l’amministrazione Truman dal riconoscimento del nuovo stato. Fuori dall’ambito religioso, e paradossalmente sulla base di una posizione teorica che esalta la posizione politica, Hannah Arendt si schierò spesso contro Israele per ragioni analoghe, perché Israele era uno stato e regolava il proprio statuto interno e le relazioni esterne sulla base della imperfetta logica del possibile, senza indicare un  rinnovamento utopico della convivenza umana.

Tutti questi casi, così diversi fra loro, e altri ancora più recenti che si potrebbero indicare anche in Italia, hanno in comune la sfiducia o piuttosto il rifiuto della dimensione quotidiana e terrena dello stato di Israele, contrapponendolo a un’utopia in cui il potere non dovrebbe essere più oppressivo, non ci sarebbe più violenza e ingiustizia, lo stato stesso potrebbe deperire nell’anarchia. In assenza di questa condizione ideale, sarebbe meglio “subire l’ingiustizia che commetterla” (come recita una celebre affermazione che Platone attribuisce a Socrate, e dunque non costituire uno stato ma vivere sotto il dominio dei popoli. E’ facile mostrare come questa posizione sia irrealistica e pericolosa. Basta richiamare alla storia eterna dell’antisemitismo, al fatto che, come prevede l’Hagadah, non c’è stata generazione nei vari esili che ha subito il popolo ebraico (in Egitto, in Babilonia, in Persia, negli ultimi duemila anni in tutto il mondo) che non abbia subito aggressioni e tentativi di genocidio. E’ facile anche richiamare la conclusione del libro dei Giudici, con le orribili stragi interne al popolo ebraico e il dibattito che segue quando il popolo chiede di avere “un re che ci governi” (cioè un sistema politico) “come tutti gli altri popoli”, Samuele si oppone ma la voce divina gli dice, sia pure a malincuore, di accettare la proposta (Samuele, cap. 8). O su tutti i passi talmudici in cui, pur sotto il dominio oppressivo dei romani, si dice che un governo, anche cattivo, è preferibile all’anarchia, dove “gli uomini si divorerebbero fra loro”.

Il punto è ancora più generale, ha a che fare con la costituzione di Israele come popolo, sulla instaurazione della sua organizzazione politica che è premessa e non conseguenza della rivelazione della Torah, come si vede chiaramente dal racconto di Esodo 18-19). L’idea che l’ebraismo debba essere apolitico e utopico, o “santo” e messianico (che in fondo è la stessa cosa) è estranea alla nostra tradizione, oltre che storicamente infondata. Dappertutto e sempre l’ebraismo si è organizzato come comunità civile, costruendo le istituzioni di autogoverno che poteva realizzare e usandole come base per realizzare la forma di vita prescritta dalla tradizione. Quando ha dovuto non ha esitato a difendere la sua vita con le armi, dalle battaglie di Abramo a quella che conclude il libro di Ester fino alla resistenza antinazista e alla difesa dello Stato di Israele. La dimensione politica e militare è perfettamente presente a partire da quel testo originario dell’anima ebraica che è il canto di Mosè dopo il passaggio del mare. L’ebraismo non è mai stato né anarchico, né pacifista (anche se desideroso della pace, certamente, ma non in ogni modo e ad ogni costo). E non è stato utopico, anzi è la più topica delle religioni (ammesso che sia una religione), quella più strettamente legata a un edificio (il Tempio), un luogo (Gerusalemme), una terra (Israele), un popolo. Negare questi legami in favore di universalismi, utopie, pretese di perfezioni assolute, porta vicino alle varie categorie dei nemici del popolo ebraico, da cui questa riflessione è partita.

 

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