Il dramma israeliano. Sentirsi tutti esuli in una patria ibrida.
Il libro di Eshkol Nevo è un’opera corale sul peso di vivere in un Paese smarrito fra ipertecnologia e provincialismo.
Eshkol Nevo è un quarantenne scrittore israeliano di riconosciuto talento, e bene fa ora Neri Pozza a riproporre, in una traduzione rivista sulle base delle indicazioni dell’autore, il suo romanzo d’esordio, Nostalgia (pagg.
412, euro 18), da noi uscito una decina d’anni fa un po’ in sordina, ma che in patria e nel mondo anglosassone riscosse successo e riconoscimenti. I suoi libri a seguire, La simmetria dei desideri, soprattutto, e Neuland, non hanno fatto del resto che confermarne la dimensione letteraria, ma Nostalgia resta l’archetipo della sua narrativa, nel senso che la ingloba e quasi la giustifica, indica una linea di tendenza a cui l’autore poi non è più venuto meno.
Nato negli anni Settanta, un’infanzia fra Israele e gli Stati Uniti, Nevo appartiene a una generazione con cui la storia è stata avara: non era ancora nata nel periodo pionieristico e glorioso degli esordi dello Stato d’Israele, né in quello che lo vide difendere con successo, in guerre successive, il suo diritto a esistere. Si è invece ritrovata sotto le armi nella Prima e nella Seconda Intifada palestinese, e l’ha vissuta come una guerra d’occupazione: la pura e semplice dominazione con la forza. Come già ha scritto David Grossman, «essere forte e percepirsi debole è un’immensa tentazione. Abbiamo decine di bombe atomiche, carri armati, aerei.
Affrontiamo gente priva di tutte queste armi. Tuttavia, mentalmente restiamo delle vittime. Questa incapacità a percepirci quali siamo in relazione all’altro, è la nostra principale debolezza».
Nostalgia affonda le radici proprio nel dolente punto di distacco psicologico fra il vecchio mondo romantico e generoso e quello ferrigno e impietoso che ne ha preso il posto. L’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, a opera di un fondamentalista ebraico che intende così protestare contro ogni accordo di pace arabo-israeliano, è il fatto storico intorno a cui ruota la vicenda, con la sconcertante constatazione che il terrorismo politico può essere un prodotto domestico e non una maledizione palestinese.
Nel raccontare più vite all’interno di uno stesso agglomerato urbano, il Castel di Maoz Zion, non lontano da Gerusalemme, non troppo distante da Tel Aviv, Nevo dunque mette in scena la ricerca del proprio posto nel mondo, nel momento in cui il proprio mondo sembra impazzire. I genitori di Ghidi, il figlio maggiore che è morto in Libano, se ne andranno in Australia per evitare il peso di un dolore che in patria toglie loro ogni forza; la famiglia di Moshe e di Sima dovrà fare i conti con una tradizione religiosa che sempre più si trasforma in arma ideologica… E poi c’è il giovane Amir, che studia psicologia, ma che fatica a non far proprie le nevrosi dei pazienti che dovrebbe curare, la sua ragazza Noa, che sente soffocare la propria creatività nella vita di copia, ma non ce la fa a vivere da sola…
In realtà, quello che viene fuori dal romanzo è l’artificialità della nostalgia, vale a dire dei legami profondi che la rendono tale. Le nuove generazioni che lì sono nate, ci si sentono strette e vorrebbero vedere il mondo, le vecchie che lì si trasferirono faticano ad accettare ciò che hanno costruito, ed è sufficiente un lutto, una perdita per rimetterlo in discussione. Le une e le altre vivono nell’incertezza ed è come se dovessero scontare una doppia anima, occidentale e mediorientale, in cui dalla cucina alle preferenze musicali il risultato è sempre un ibrido che lascia insoddisfatti. Pochi libri danno come questo l’idea di una fragilità psicologica che si trincera dietro la sicurezza militarizzata, dove le ragioni degli altri, per esempio gli antichi abitanti di quel territorio divenuti profughi, possono essere eluse solo facendo finta che non siano mai esistite.
Si respira per tutto il romanzo un’aria insieme asfittica e provinciale, claustrofobica per molti versi, tanto più acuta perché ha a che fare con una società tecnologicamente avanzata, che sfrutta i ritrovati più moderni della tecnica, che gode di canali preferenziali con le grandi democrazie liberali anglosassoni e che però si radica e quasi si barrica in realtà territoriali che sfuggono a tutto ciò, dove le metropoli sono eccezioni e il Castel, il castello più o meno fortificato, la realtà. L’architettura riflette così una psicologia da assedio: tutto è come pericolosamente, minacciosamente in equilibrio. Costruire un qualcosa che duri si rivela spesso un’impresa superiore alle proprie forze. Nostalgia racconta il sentirsi esuli in patria.
Da:IlGiornale
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