israelmap266Testata: Shalom
Data: 18 settembre 2013
Autore: Ugo Volli

Riportiamo da SHALOM di settembre 2013, a pag. 13, l’articolo di Ugo Volli dal titolo ” La pace vera e quella (tutta da verificare) sulla carta “.

Ugo Volli

Al centro del Grande Disordine Arabo che macina da tre anni ormai migliaia di morti al mese, Israele è sostanzialmente in pace. Ogni tanto qualche missile arriva da Gaza o dal Sinai, prontamente bloccato da Iron Dome e seguito da misurate rappresaglie, ogni tanto qualche colpo di mortaio supera i confini siriani, più spesso il “terrorismo a bassa intensità” delle pietre sulle macchine e delle coltellate a tradimento provoca allarme nel territorio stesso di Israele. Ma non vi è confronto con quel che succede tutto intorno e neppure con quel che accadeva in Israele dieci anni fa. Le statistiche dicono che nell’ultimo anno vi è stato solo un morto da parte israeliana e una decina di terroristi coinvolti in attacchi con bombe molotov o sassi – il minor numero da sessant’anni in qua. Non sarà la pace ma ci somiglia.


Iron Dome, il sistema di difesa israeliano

Pure è un luogo comune nella stampa e presso i politici europei e americani che l’epicentro di tutta l’instabilità in Medio Oriente sia Israele, che solo la pace fra Israele e l’Anp può risolvere questa situazione e che siamo di fronte all'”ultima occasione” per questa pace. L’attivismo del segretario di stato americano Kerry che ha imposto ai riluttanti governi israeliani e dell’Anp di riprendere trattative dirette, invece di dedicarsi alle crisi sanguinose di Egitto, Siria, Tunisia, Yemen, Iraq, Libano ecc. si giustifica con questa linea di pensiero.
Non discuterò qui queste opinioni, le ho spesso contestate. E non parlerò nemmeno della stranezza politica che ha portato l’amministrazione Obama a questa scelta di priorità. Noterò solo che l’ostacolo principale per i nemici di Israele si chiama “normalizzazione” e che la normalizzazione è in atto, come si vede girando un po’ per Giudea e Samaria: gli esagitati non mancano, ma la situazione che si vede per le strade è abbastanza tranquilla, la circolazione è facile perché buona parte dei check point sono stati aboliti, circa un terzo degli stipendi degli arabi dell’Anp vengono da datori di lavoro israeliani, i villaggi ebraici si sviluppano al di qua come al di là della linea verde, ma cresce anche l’economia palestinese, vi sono belle case e campi ben coltivati in entrambe le comunità. Tutto questo mostra che, almeno a medio termine, la situazione è più che sostenibile e la maggioranza dei cittadini dell’Anp preferisce vivere nella situazione attuale piuttosto che avventurarsi nel disordine di un'”intifada” o in una guerra civile.

Naturalmente questo non piace ai “rivoluzionari di professione” come sono stati formati ad essere i quadri di Fatah e Hamas e neppure ai loro consimili delle Ong: dopotutto gli uni e gli altri vivono e piuttosto bene del loro ruolo nel conflitto, in assenza del quale perderebbero importanza e privilegi. A giustificare i tentativi di destabilizzare questa situazione vi sono due argomenti, uno demografico e uno giuridico. Sul piano demografico si dice che Israele sarà presto sommerso da una maggioranza araba, a meno che si distacchi da Giudea e Samaria come ha fatto da Gaza. Non ho lo spazio qui per discutere questa teoria “dell’apocalisse” demografica, mi basta dire che sono sempre più numerose le voci in Israele che contestano come gonfiati i dati dei censimenti palestinesi e sottolineano che vi è un’inversione di tendenza: la natalità araba è in forte arretramento, quella ebraica cresce e i due tassi sono ormai vicini ad allinearsi.


Il tema giuridico è molto propagandato sul piano politico e giornalistico. Vi sarebbe una “occupazione” israeliana di “territori palestinesi” che violerebbe la “legalità internazionale” e pertanto andrebbe fermata al più presto. Tutto ciò però, sul piano strettamente giuridico, non è affatto vero. Israele è stato costruito sul territorio del mandato britannico sulla Palestina, deciso dopo la fine della prima guerra mondiale e il crollo dell’impero aottomano, dal trattato di pace di San Remo (un trattato accessorio di quello di Versailles, si trova in rete fra l’altro qui: https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/britman.htm ) e poi della deliberazione della Società delle nazioni (le cui decisioni sono state interamente confermate dall’Onu al momento della sua fondazione). La premessa del mandato è che “recognition has thereby been given to the historical connexion of the Jewish people with Palestine and to the grounds for reconstituting their national home in that country “si dà riconoscimento alla connessione storica del popolo ebraico con la Palestina come base per ricostituire in quale paese la loro nazione”. All’articolo 6 si impone al mandatario di “shall facilitate Jewish immigration […] and shall encourage […] close settlement by Jews on the land, including State lands and waste lands not required for public purposes” cioè facilitare l’immigrazione ebraica e di incoraggiare il “fitto insediamento” (o “colonizzazione” la parola è sempre “to settle”) della terra, incluse le terre statali e quelle vuote non necessarie a scopi pubblici. Questo testo, che ha valore legale si riferisce a tutta la Palestina mandataria. La proposta di divisione dell’Assemblea generale dell’Onu, che fu respinta dai paesi arabi, gli accordi armistiziali e poi quelli di Oslo, che rimandano tutti al futuro non hanno cambiato la condizione giuridica del territorio, anche della parte che fu arbitrariamente occupata dalla Giordania nel ’49. Il mandato di Palestina tutto, anche il “west Bank”, come si iniziò a chiamarne un pezzo dopo il ’49, era destinato a patria del popolo ebraico e la sua “colonizzazione” era e resta perfettamente legale. La convenzione di Ginevra che spesso si cita come prova dell’illegalità israeliana non c’entra niente: sia perché si applica a territori occupati, come Giudea e Samaria non sono, sia perché riguarda trasferimenti forzati di popolazione e pulizia etnica, come in quella zona ha perpetrato la Giordania e vorrebbe commettere l’Anp, ma Israele non ha mai fatto. I fatti che ho esposto sono ben noti.
E’ quel che ha scritto il rapporto della commissione Levy (dal nome dell’ex giudice della corte suprema israeliana che l’ha presieduto) del 2012; è quel che è stato affermato di recente da un appello di giuristi contro la decisione, tutta politica, della Commissione Europea di proibire ogni suo finanziamento ad attività che hanno sede oltre la linea armistiziale del ’49: ” la definizione dell’UE della Giudea e Samaria come “territori palestinesi” o” territori occupati” è priva di qualsiasi valore legale o di fatto. L’area non è mai stata definita come tale [ai sensi del diritto internazionale] e quindi l’uso continuo dell’Unione europea di questa terminologia mina la negoziati per una pace permanente” La percezione di illegalità degli insediamenti israeliani da parte “dell’UE deriva da ragioni differenti dal diritto internazionale”. Inutile dire che queste analisi e altre consimili sono regolarmente ignorati dai giornali. In conclusione: non vi sono affatto le ragioni né politico-militari, né giuridiche per rendere una trattativa fra Israele e Anp necessaria né tanto meno urgente. Vi può essere un’opportunità politica, una volontà di convivenza, la necessità di non scontrarsi frontalmente con una comunità internazionale in buona parte succube della propaganda islamica e ostile a Israele. Ma bisogna fare attenzione a non distruggere una tranquillità sostanziale e faticosamente conquistata con un pezzo di carta che sarebbe comunque rinnegato da buona parte dei movimenti palestinesi e alla prima occasione facilmente stracciato, come ha spiegato in televisione un ministro dell’Anp, come Maometto fece del suo accordo con i nemici della Mecca.

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One Response to La pace vera e quella (tutta da verificare) sulla carta.

  1. Maurizio Baldassin ha detto:

    Sono stato in Israele negli anni 1970-71. Volontario nei kibutz Or Haner (Askelon) e Gesher (Jordan valley). Poi ritornai in visita nel 1992. Quando arrivai la prima volta Israele festeggiava i suoi 22 anni dalla dichiarazione d’indipendenza. Avevo 18 anni, fui accolto come un fratello e Israele fu per me una seconda patria.
    Conservo molti bei ricordi di quel periodo anche se non era dei più tranquilli, ma non credo che ci sia mai stato un periodo realmente tranquillo. Ho sempre il desiderio di ritornare. Rimpiango di non essere ebreo di origine, ma mi ritengo “ebreo per auto adozione affettiva” se così si può dire. Shalom

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