I confini insanguinati dello stato di Israele
Un articolo di Stefano Magni
Nubi di guerra si stanno addensando su Israele. Dall’inizio dell’anno, lo Stato ebraico, di solito al centro delle violenze, ha vissuto in una sorta di irreale oasi di pace in mezzo a un Medio Oriente turbolento. Da una settimana, però, sono ripresi i lanci di razzi da Gaza e la guerra civile siriana sta coinvolgendo il Libano, a due passi dalla Galilea. I razzi di Gaza sono una vecchia e drammatica conoscenza per tutte le comunità (kibbutz, moshav e città) del Negev occidentale. Ogni casa ha un suo bunker, i cittadini sono ormai abituati a correre al riparo in quindici secondi, il tempo che trascorre fra l’allarme e l’impatto dell’ordigno. Nel 2012, in quella regione, la situazione era assolutamente invivibile: 2256 lanci in un anno, la maggior parte dei quali concentrati nel solo mese di novembre quando si sono riaperte le ostilità fra Hamas e Israele.
Dall’inizio del 2013, invece, i lanci erano in tutto 20. Alcuni sono stati effettuati proprio nel corso della visita di Barack Obama, giusto per segnalare a Israele, all’Autorità Palestinese e al presidente statunitense che il partito islamico palestinese non voleva sentir parlare di “processo di pace”. La relativa calma sul fronte di Gaza era dovuta, essenzialmente, alla guerra di novembre che ha distrutto gran parte delle infrastrutture militari di Hamas. Come sempre avviene, dopo aver incassato un colpo molto duro, l’organizzazione islamica ha proclamato una tregua, negoziata con l’Egitto. Per farla rispettare, i corpi speciali della polizia di Gaza sono stati rischierati lungo i confini, per prevenire atti di guerra da parte di organizzazioni diverse da Hamas, o sue cellule armate fuori controllo. Nonostante tutto, lunedì scorso, un ordigno è stato lanciato contro Sderot.
Per motivi tecnici ha mancato clamorosamente il bersaglio ed è andato ad impattare in territorio palestinese. Dopo questa prima, maldestra, prova di guerra, a una settimana di distanza (domenica notte) altri sei razzi sono stati tirati. Almeno due di essi erano armi da guerra, non gli artigianali Qassam (che possono essere prodotti in tutte le officine meccaniche), ma Grad, katjushe di fabbricazione russa, passate dall’Iran a Hamas e Hezbollah. I razzi non hanno provocato vittime, mancando i loro bersagli e due di essi sono stati intercettati dal sistema anti-missile Iron Dome, mentre erano in volo su Ashkelon. Quasi immediata la risposta dell’aviazione israeliana: sono stati bombardati due depositi di armi, un’area usata per i lanci e un “centro di attività terroristiche”. Mentre Hamas nega ogni responsabilità, il bombardamento viene rivendicato dalla Jihad Islamica, altra organizzazione palestinese di Gaza. Possibile che i corpi della polizia speciale di Hamas si siano lasciati sfuggire dei razzi Grad? In ogni caso, Benjamin Netanyahu, commentando i fatti, ha avvertito che «Israele è in grado, da solo, di rispondere ad ogni minaccia, lontana o vicina che sia», lanciando così un monito anche all’Iran, che ha cambiato il suo presidente, ma non il suo programma atomico.
Toni più duri da parte di Avigdor Liberman, ex ministro degli Esteri e attuale presidente della Commissione Esteri e Difesa della Knesset: «Hamas non ha alcuna intenzione di accettare la presenza ebraica in Israele. E quindi abbiamo bisogno di tornare nella striscia di Gaza a fare pulizia». Una rioccupazione militare della Striscia di Gaza, dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005, non è mai stata presa in considerazione, almeno sinora. Dopo due guerre e un continuo stillicidio di razzi, però, anche questa politica può cambiare. Il peggior ostacolo alla soluzione “due popoli in due Stati” è proprio la constatazione che, da qualunque regione si ritiri Israele, ricomincia la guerra contro gli israeliani. Lo stesso discorso vale per il Libano: dopo il ritiro dal Sud del Paese, avvenuto nel 2000, è subentrato Hezbollah, che ha preso il controllo di tutta l’area e ha avviato l’escalation di azioni di guerriglia fino alla guerra del 2006. Solo la presenza di un nutrito corpo di interposizione internazionale (Unifil2) ha impedito lo scoppio di ulteriori ostilità.
Ma non il riarmo di Hezbollah, che ora dispone di un arsenale addirittura superiore rispetto a quello del 2006. Una guerra anche su quel fronte è considerata sempre più probabile. Hezbollah sta partecipando, con almeno 7000 uomini, alla guerra civile siriana, dove combatte dalla parte del dittatore Bashar al Assad. Il partito armato sciita ha perso centinaia di uomini, fra morti e feriti, anche se non vuole divulgare statistiche precise sul numero dei suoi caduti. E, nel Libano del Sud, si sono rafforzate milizie sunnite che combattono dalla parte dei ribelli anti-Assad. Ieri si è registrato un episodio grave da pre-guerra civile, uno dei tanti ormai: 16 militari libanesi morti a Sidone, in uno scontro con i sunniti seguaci dello sceicco Ahmad al Assir. Domenica era stato arrestato uno dei membri del gruppo, per trasporto di armi illegali. La reazione della milizia sunnita è stata molto violenta e a Sidone è scoppiata una vera e propria battaglia, con uso di razzi e mitragliatrici. Il rischio di una guerra fra sunniti e Hezbollah è sempre più vivo ed entrambe le parti sono dichiaratamente nemiche di Israele. Alla prima scintilla possono iniziare a combattersi tra loro. O lanciare provocazioni militari contro lo Stato ebraico per “distrarre” l’opinione pubblica libanese dal nemico interno.
(L’Opinione, 25 giugno 2013)
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