Terroristi di al Qaeda dall’Italia ai Paesi islamici.
Testata: L’Espresso Data: 08 ottobre 2012 Pagina: 50 Autore: Paolo Biondani Titolo: «La Jihad venuta dall’Italia». //*IC*
Riportiamo dall’ESPRESSO n°41 del 12/10/2012, a pag. 50, l’articolo di Paolo Biondani dal titolo “La Jihad venuta dall’Italia”.
Ecco la sorte dei terroristi islamici italiani. Dopo aver scontato pene relativamente brevi nelle carceri italiane, fanno ritorno ai loro Paesi d’origine, dove possono organizzare attentati in tutta libertà appoggiando al Qaeda.
Il predicatore integralista arringa i fedeli con un discorso incendiario. Attacca «i nemici occidentali», profetizza che «moriranno» come «in Afghanistan, Pakistan, Somalia e Cecenia». «Questa è una guerra tra l’Islam e gli infedeli», tuona in arabo classico. Il suo comizio esalta alcune centinaia di militanti, che invocano Allah e inneggiano a nuove rivolte in Tunisia e negli altri Paesi della primavera araba, per spazzare via i musulmani moderati e instaurare regimi religiosi. In piazza sventolano le bandiere nere degli ultra-conservatori salafiti. Barba folta, tunica nera, il predicatore è un leader carismatico. Si chiama Seifallah Ben Hassine, detto Abu Iyad. Ha combattuto in Afghanistan, ha scontato anni di prigione sotto la dittatura di Ben Alì, è tornato libero dopo la caduta del regime. Oggi è il ricercato numero uno per il violento attacco all’ambasciata americana a Tunisi. Al suo fianco, sul palco, c’è un estremista che la polizia italiana conosce molto bene. Ha vissuto per anni tra Milano e Gallarate. E ha un motivo speciale per odiare il nostro Paese: arrestato e condannato in Italia per terrorismo internazionale, ha scontato più di sei anni di carcere duro, tra ex brigatisti sardi e mafiosi calabresi, nei nostri penitenziari di massima sicurezza. E non è l’unico: sono almeno una decina gli ex terroristi islamici che, dopo processi e condanne in Italia, sono stati espulsi e ora, tornati liberi in patria, guidano le rivolte antiamericane. Il più famoso compare in un video scoperto da “l’Espresso” su Internet. Una ripresa amatoriale di 15 minuti, che lo ritrae sul palco dei capi del partito salafita tunisino (Ansar Al Sharia, traducibile con “partigiani della legge islamica”) per tutta la durata del comizio, accanto ad Abu Iyad. È chiaramente il suo braccio destro: è lui, l’ex detenuto nelle carceri italiane, a dare la parola allo «sceicco», con un megafono, e a ritmare il coro dei fedeli pronti alla rivolta. Ha un cappellino con la visiera calata sulla fronte, forse per ostacolare il riconoscimento, ma il volto è inconfondibile, solo la barba lasciata crescere lo differenzia appena un po’ dalla foto segnaletica scattata in questura a Milano quando fu ammanettato: è proprio Sami Essid Ben Khemais, detto Saber, nato in Tunisia 44 anni fa, arrestato nell’aprile 2001 in provincia di Varese e condannato come capo di una cellula terroristica di stampo islamista con basi in Lombardia e ramificazioni in Belgio, Inghilterra, Germania, Francia, Afghanistan, Algeria e Libia.
Dopo le stragi di Al Qaeda dell’11 settembre 2001, le sue intercettazioni furono pubblicate dalla stampa internazionale come un prezioso spaccato di vita dall’interno della rete mondiale della guerra santa. Gli agenti della Digos erano riuscita a nascondergli microspie in casa e in macchina, registrando così i suoi colloqui più segreti. A tu per tu con i complici, Saber parlava di «bidoni di liquido che soffoca le persone», di «contenitori metallici da trasformare in bombe», di eccidi sperimentati in Afghanistan e già compiuti in Algeria, di altri attentati in preparazione in Europa. Le sentenze definitive documentano purtroppo che le sue non erano solo parole. Seguendo le tracce di uno dei suoi affiliati (un combattente tunisino che viaggiava con un falso passaporto libico) la polizia tedesca sequestrò un micidiale carico di esplosivo, sventando in extremis una strage di cristiani ed ebrei nella piazza della cattedrale di Strasburgo, programmata tra Natale e Capodanno del 2000. Nella casa-covo dei suoi complici, furono scoperti trenta chili di Tatp: lo stesso composto chimico artigianale poi usato dai terroristi suicidi di Casablanca (45 morti nel 2003) e dai kamikaze del 7 luglio 2005 a Londra (55 vittime). Oggi Sami Essid è tornato libero, fa politica e per fortuna sogna solo di prendere il potere in Tunisia, il Paese che ha aperto la strada alle rivolte popolari contro le dittature arabe. Il video che lo mostra accanto al leader Abu Iyad è stato girato e messo in Rete probabilmente dagli stessi militanti, qualche tempo prima dell’ondata di violenze anti-americane scatenate dal famigerato film che diffama il profeta Maometto. Nel comizio videoregistrato, lo sceicco non parla di ambasciate, ma il suo appello a «combattere qui e ora la guerra santa contro gli occidentali infedeli» sembra quasi un antefatto, se non un’istigazione. Dopo l’attacco dello scorso 11 settembre a Bengasi, che ha provocato la morte di quattro statunitensi tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens, e i contemporanei o di poco successivi assalti alle sedi diplomatiche americane in Egitto e Tunisia, sotto accusa sono finiti proprio i militanti salafiti di Ansar Al Sharia. Da allora Abu Iyad è ricercato come presunto mandante del raid di Tunisi. Il 17 settembre un migliaio di agenti hanno circondato la moschea dove stava predicando, nel centro della capitale, ma lo sceicco è riuscito a fuggire, protetto da centinaia di seguaci che usavano come scudo donne e bambini e urlavano slogan contro Barack Obama e a favore di Bin Laden. La gravità e l’ampiezza degli scontri ha sollevato molti interrogativi tra gli esperti. Ci sono legami tra i rivoltosi di oggi e i gruppi terroristici scoperti negli ultimi anni? Oltre alle sigle e all’ideologia, le frazioni salafite dei diversi Paesi hanno una base organizzativa comune? L’assalto armato all’ambasciata di Bengasi è stato guidato da “stranieri” (magari tunisini), come ha dichiarato il nuovo governo libico? Esistono davvero contatti con la cupola di Al Qaeda, che ha rivendicato tutto a cose fatte, oppure l’organizzazione rimasta orfana di Bin Laden è diventata solo un marchio propagandistico? E l’Europa rischia nuovi attentati? La storia dei salafiti condannati in Italia e ricomparsi in Tunisia può fornire le prime risposte documentate da sentenze decise dopo tre gradi di giudizio, con tutti i garantismi del giusto processo. Il primo fatto certo è che “l’emiro” Sami Essid non è il solo tra i salafiti tunisini ad avere alle spalle anni di detenzione in Italia. Vicino a lui, nello stesso video del comizio dello sceicco, compare un militante che somiglia terribilmente a Mehdi Kammoun, un altro integralista tunisino arrestato e condannato a Milano. Faceva parte della stessa cellula terroristica di Sami Essid: era il suo complice più fidato. Ora rispuntano entrambi, l’ex capo-rete e il suo factotum, l’uno accanto all’altro, sul palco del leader Abu Iyad. Kammoun ed Essid indossano la stessa casacca arancione, che sembra identificare i responsabili della sicurezza, l’ala più dura del partito. I due condannati in Italia sono gli unici ammessi a salire sul palco con lo sceicco. E tocca a loro incitare i fedeli a unirsi alla preghiera e a seguire i bellicosi proclami dello sceicco Abu Iyad. Quando furono interrogati in tribunale a Milano, Sami Essid e Mehdi Kammoun smentirono l’accusa di aver reclutato decine di integralisti qui in Italia, per inviarli nei campi di addestramento alla guerra e al terrorismo in Afghanistan e in Algeria. Secondo l’accusa, loro stessi avevano imparato a fabbricare esplosivi in una base afghana riservata ai loro connazionali, la cosiddetta “casa dei tunisini”, vicino a Jalalabad, dove sarebbero rimasti per almeno due anni, prima di entrare (regolarmente) in Italia tra il 1998 e 1999. Il presunto capo di quel campo paramilitare afghano, all’epoca, era un certo Abu Doujana: è uno dei tunisini catturati dalle truppe americane, rinchiusi senza processo a Guantanamo e poi estradati in Italia, proprio perché indagati legalmente dalla nostra giustizia. Abu Doujana fu sostituito dopo uno scontro interno tra due fazioni: dal 1999, come nuovo capo della “casa dei tunisini”, arrivò in Afghanistan proprio Abu Iyad, l’attuale sceicco dei salafiti. Che si era fatto un nome come imam ultra-conservatore a Londra, con altri big integralisti. Il gruppo dei tunisini, secondo le indagini della polizia italiana, non era inserito nell’organizzazione di Bin Laden, ma formava un nucleo autonomo. Dopo il 2001, però, i fuoriusciti dai diversi campi afghani hanno stretto contatti in Europa. E senza entrare nella ristretta cerchia segretissima di Al Qaeda, hanno fornito appoggi per almeno uno degli attentati più clamorosi. Il 9 settembre 2001, alla vigilia dell’attacco alle Torri gemelle, in Afghanistan viene assassinato Ahmed Shah Massoud, il carismatico capo tagiko che è il primo nemico dei talebani che ospitano Bin Laden. I killer sono due tunisini, che si spacciano per giornalisti tv, ma hanno telecamere e cinture imbottite di esplosivi. Viaggiavano entrambi con passaporti falsi, forniti da un gruppo di fiancheggiatori trapiantati in Belgio: a guidarli è un salafita tunisino, Tarek Maaroufi, che viene quindi arrestato e condannato per complicità nell’omicidio di Massoud. Il tunisino Maaroufi è stato inquisito (e ricercato) anche in Italia: le sue parziali confessioni ai giudici belgi sono entrate proprio nel processo milanese al gruppo di Sami Essid. Che in aula non ha potuto smentire di averlo ospitato a Milano, alla fine del 2000, dopo il ritorno di Maaroufi da una misteriosa missione in Afghanistan. Essid ha confermato anche di aver procurato passaporti falsi alle altre cellule europee, ma «solo per soldi». «Non sapevo che uso ne facevano, non sono un terrorista e non ho niente contro l’Italia», ha proclamato al processo, definendo «inventate» le sue intercettazioni esplosive.
Scontati sei anni e quattro mesi di reclusione (una pena relativamente bassa, perché fu arrestato quando in Italia non esisteva ancora il reato di terrorismo internazionale), Essid si è visto riarrestare il giorno stesso: il 3 giugno 2007, mentre si preparava a tornare libero, i magistrati milanesi lo hanno rimandato in cella, tra le proteste dei difensori, con un nuovo ordine di carcerazione preventiva. Scaduto anche quell’arresto, la sua espulsione, nel giugno 2008, è diventata un caso diplomatico internazionale. La Corte europea per i diritti umani ha infatti condannato l’Italia, nel 2009, per il suo rimpatrio forzato. La Corte non ne ha messo in dubbio la colpevolezza nei processi milanesi, ma ha proclamato che Essid, con l’espulsione in Tunisia, ha subito un trattamento disumano: condannato a una pena assurda (115 anni di carcere) da un tribunale militare in un sistema dittatoriale, è stato rinchiuso in una prigione famosa per le torture ai detenuti. Da quel carcere-lager è evaso, con altri reclusi, nel gennaio 2012, grazie alla rivoluzione pacifica che ha deposto Ben Alì. Quindi ha beneficiato dell’amnistia generale che ha riportato in libertà tutti gli oppositori incarcerati dal regime. “L’Espresso” ha contato altri dieci condannati in Italia che sono tornati liberi tra Marocco, Tunisia, Egitto e Libia. Qualcuno ha ancora agganci fortissimi in Italia, come due libici espulsi poche settimane fa da Roma, perché dichiarati «pericolosi per la sicurezza». Di certo la caduta delle dittature favorisce queste espulsioni, non più attaccabili per deficit di garanzie democratiche. E in marzo, scontata la condanna in Belgio, è atterrato trionfalmente a Tunisi anche Tarek Maaroufi, l’amico dei killer di Massoud.
Dopo le stragi di Al Qaeda dell’11 settembre 2001, le sue intercettazioni furono pubblicate dalla stampa internazionale come un prezioso spaccato di vita dall’interno della rete mondiale della guerra santa. Gli agenti della Digos erano riuscita a nascondergli microspie in casa e in macchina, registrando così i suoi colloqui più segreti. A tu per tu con i complici, Saber parlava di «bidoni di liquido che soffoca le persone», di «contenitori metallici da trasformare in bombe», di eccidi sperimentati in Afghanistan e già compiuti in Algeria, di altri attentati in preparazione in Europa. Le sentenze definitive documentano purtroppo che le sue non erano solo parole. Seguendo le tracce di uno dei suoi affiliati (un combattente tunisino che viaggiava con un falso passaporto libico) la polizia tedesca sequestrò un micidiale carico di esplosivo, sventando in extremis una strage di cristiani ed ebrei nella piazza della cattedrale di Strasburgo, programmata tra Natale e Capodanno del 2000. Nella casa-covo dei suoi complici, furono scoperti trenta chili di Tatp: lo stesso composto chimico artigianale poi usato dai terroristi suicidi di Casablanca (45 morti nel 2003) e dai kamikaze del 7 luglio 2005 a Londra (55 vittime). Oggi Sami Essid è tornato libero, fa politica e per fortuna sogna solo di prendere il potere in Tunisia, il Paese che ha aperto la strada alle rivolte popolari contro le dittature arabe. Il video che lo mostra accanto al leader Abu Iyad è stato girato e messo in Rete probabilmente dagli stessi militanti, qualche tempo prima dell’ondata di violenze anti-americane scatenate dal famigerato film che diffama il profeta Maometto. Nel comizio videoregistrato, lo sceicco non parla di ambasciate, ma il suo appello a «combattere qui e ora la guerra santa contro gli occidentali infedeli» sembra quasi un antefatto, se non un’istigazione. Dopo l’attacco dello scorso 11 settembre a Bengasi, che ha provocato la morte di quattro statunitensi tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens, e i contemporanei o di poco successivi assalti alle sedi diplomatiche americane in Egitto e Tunisia, sotto accusa sono finiti proprio i militanti salafiti di Ansar Al Sharia. Da allora Abu Iyad è ricercato come presunto mandante del raid di Tunisi. Il 17 settembre un migliaio di agenti hanno circondato la moschea dove stava predicando, nel centro della capitale, ma lo sceicco è riuscito a fuggire, protetto da centinaia di seguaci che usavano come scudo donne e bambini e urlavano slogan contro Barack Obama e a favore di Bin Laden. La gravità e l’ampiezza degli scontri ha sollevato molti interrogativi tra gli esperti. Ci sono legami tra i rivoltosi di oggi e i gruppi terroristici scoperti negli ultimi anni? Oltre alle sigle e all’ideologia, le frazioni salafite dei diversi Paesi hanno una base organizzativa comune? L’assalto armato all’ambasciata di Bengasi è stato guidato da “stranieri” (magari tunisini), come ha dichiarato il nuovo governo libico? Esistono davvero contatti con la cupola di Al Qaeda, che ha rivendicato tutto a cose fatte, oppure l’organizzazione rimasta orfana di Bin Laden è diventata solo un marchio propagandistico? E l’Europa rischia nuovi attentati? La storia dei salafiti condannati in Italia e ricomparsi in Tunisia può fornire le prime risposte documentate da sentenze decise dopo tre gradi di giudizio, con tutti i garantismi del giusto processo. Il primo fatto certo è che “l’emiro” Sami Essid non è il solo tra i salafiti tunisini ad avere alle spalle anni di detenzione in Italia. Vicino a lui, nello stesso video del comizio dello sceicco, compare un militante che somiglia terribilmente a Mehdi Kammoun, un altro integralista tunisino arrestato e condannato a Milano. Faceva parte della stessa cellula terroristica di Sami Essid: era il suo complice più fidato. Ora rispuntano entrambi, l’ex capo-rete e il suo factotum, l’uno accanto all’altro, sul palco del leader Abu Iyad. Kammoun ed Essid indossano la stessa casacca arancione, che sembra identificare i responsabili della sicurezza, l’ala più dura del partito. I due condannati in Italia sono gli unici ammessi a salire sul palco con lo sceicco. E tocca a loro incitare i fedeli a unirsi alla preghiera e a seguire i bellicosi proclami dello sceicco Abu Iyad. Quando furono interrogati in tribunale a Milano, Sami Essid e Mehdi Kammoun smentirono l’accusa di aver reclutato decine di integralisti qui in Italia, per inviarli nei campi di addestramento alla guerra e al terrorismo in Afghanistan e in Algeria. Secondo l’accusa, loro stessi avevano imparato a fabbricare esplosivi in una base afghana riservata ai loro connazionali, la cosiddetta “casa dei tunisini”, vicino a Jalalabad, dove sarebbero rimasti per almeno due anni, prima di entrare (regolarmente) in Italia tra il 1998 e 1999. Il presunto capo di quel campo paramilitare afghano, all’epoca, era un certo Abu Doujana: è uno dei tunisini catturati dalle truppe americane, rinchiusi senza processo a Guantanamo e poi estradati in Italia, proprio perché indagati legalmente dalla nostra giustizia. Abu Doujana fu sostituito dopo uno scontro interno tra due fazioni: dal 1999, come nuovo capo della “casa dei tunisini”, arrivò in Afghanistan proprio Abu Iyad, l’attuale sceicco dei salafiti. Che si era fatto un nome come imam ultra-conservatore a Londra, con altri big integralisti. Il gruppo dei tunisini, secondo le indagini della polizia italiana, non era inserito nell’organizzazione di Bin Laden, ma formava un nucleo autonomo. Dopo il 2001, però, i fuoriusciti dai diversi campi afghani hanno stretto contatti in Europa. E senza entrare nella ristretta cerchia segretissima di Al Qaeda, hanno fornito appoggi per almeno uno degli attentati più clamorosi. Il 9 settembre 2001, alla vigilia dell’attacco alle Torri gemelle, in Afghanistan viene assassinato Ahmed Shah Massoud, il carismatico capo tagiko che è il primo nemico dei talebani che ospitano Bin Laden. I killer sono due tunisini, che si spacciano per giornalisti tv, ma hanno telecamere e cinture imbottite di esplosivi. Viaggiavano entrambi con passaporti falsi, forniti da un gruppo di fiancheggiatori trapiantati in Belgio: a guidarli è un salafita tunisino, Tarek Maaroufi, che viene quindi arrestato e condannato per complicità nell’omicidio di Massoud. Il tunisino Maaroufi è stato inquisito (e ricercato) anche in Italia: le sue parziali confessioni ai giudici belgi sono entrate proprio nel processo milanese al gruppo di Sami Essid. Che in aula non ha potuto smentire di averlo ospitato a Milano, alla fine del 2000, dopo il ritorno di Maaroufi da una misteriosa missione in Afghanistan. Essid ha confermato anche di aver procurato passaporti falsi alle altre cellule europee, ma «solo per soldi». «Non sapevo che uso ne facevano, non sono un terrorista e non ho niente contro l’Italia», ha proclamato al processo, definendo «inventate» le sue intercettazioni esplosive.
Scontati sei anni e quattro mesi di reclusione (una pena relativamente bassa, perché fu arrestato quando in Italia non esisteva ancora il reato di terrorismo internazionale), Essid si è visto riarrestare il giorno stesso: il 3 giugno 2007, mentre si preparava a tornare libero, i magistrati milanesi lo hanno rimandato in cella, tra le proteste dei difensori, con un nuovo ordine di carcerazione preventiva. Scaduto anche quell’arresto, la sua espulsione, nel giugno 2008, è diventata un caso diplomatico internazionale. La Corte europea per i diritti umani ha infatti condannato l’Italia, nel 2009, per il suo rimpatrio forzato. La Corte non ne ha messo in dubbio la colpevolezza nei processi milanesi, ma ha proclamato che Essid, con l’espulsione in Tunisia, ha subito un trattamento disumano: condannato a una pena assurda (115 anni di carcere) da un tribunale militare in un sistema dittatoriale, è stato rinchiuso in una prigione famosa per le torture ai detenuti. Da quel carcere-lager è evaso, con altri reclusi, nel gennaio 2012, grazie alla rivoluzione pacifica che ha deposto Ben Alì. Quindi ha beneficiato dell’amnistia generale che ha riportato in libertà tutti gli oppositori incarcerati dal regime. “L’Espresso” ha contato altri dieci condannati in Italia che sono tornati liberi tra Marocco, Tunisia, Egitto e Libia. Qualcuno ha ancora agganci fortissimi in Italia, come due libici espulsi poche settimane fa da Roma, perché dichiarati «pericolosi per la sicurezza». Di certo la caduta delle dittature favorisce queste espulsioni, non più attaccabili per deficit di garanzie democratiche. E in marzo, scontata la condanna in Belgio, è atterrato trionfalmente a Tunisi anche Tarek Maaroufi, l’amico dei killer di Massoud.
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