(a sinistra: ” NON LEGGO MAI THE ECONOMIST”; ecco una buona regola da seguire per una corretta informazione)

Testata: Il Foglio Data: 28 luglio 2012 Pagina: 3 Autore: La redazione del Foglio Titolo: «Ecco quel che l’Economist ignora sulla ‘teocrazia israeliana’»

Sul FOGLIO del 28/07/2012, a pag.3, con il titolo “Ecco quel che l’Economist ignora sulla ‘teocrazia israeliana’ “, una precisa risposta ad una analisi – come sempre, sul settimanale inglese – ostile a Israele, nei contenuti, nella terminologia, nelle previsioni. Ecco l’articolo:

Roma. “Israele è uno dei paesi più floridi al mondo e la vita nella diaspora non è mai stata tanto libera”. Poi l’avvertimento: “Israele va verso la teocrazia messianica”. Il settimanale britannico Economist, in un gigantesco dossier dedicato a Israele e all’ebraismo, lamenta che l’atteggiamento politico prevalente oggi nello stato ebraico è “un curioso amalgama di vittimismo e intolleranza” e afferma che “il dissenso” è perseguitato da “un nuovo maccartismo”, dimenticando la schiera di libri ebraici critici di Israele (l’ultimo il bestseller di Peter Beinart “The crisis of Zionism”). Per l’Economist Israele è guidata da un misto di “nazionalismo, xenofobia e giudaismo”, “il crescente antisemitismo è associato alla critica della politica israeliana” e la leadership del paese è impressa dal “nazionalismo messianico dei coloni”. L’analisi del settimanale inglese però non fa del tutto i conti con la realtà di un paese che cambia. Gioca, invece, con quella che Donniel Hartman ha chiamato “la demografia della paura”. L’ipoteca ultra ortodossa sul destino d’Israele è reale e fortissima. Lo stato ebraico sta diventando sempre più religioso ed entro due decenni gli ultraortodossi diventeranno un terzo della popolazione. Un solco sempre più profondo separa “i ragazzi di Shenkin”, la sinistra laica di Tel Aviv, e la pancia popolare, scura e maggioritaria che si snoda fra i quartieri haredi, le periferie povere e pie, le colonie e i grandi quartieri della Gerusalemme sorta dopo il 1967. Ma il delicato equilibrio fra il carattere “ebraico” e quello “democratico” dello stato di Israele, più che dagli haredim, è sotto attacco soprattutto del cosiddetto post sionismo che invoca una “normalizzazione” dello stato che verrebbe spogliato di tutte le sue caratteristiche ebraiche e sioniste e censura la “Legge del Ritorno” come razzista e anacronistica, sulla base dell’assunto che Israele non abbia più bisogno di fungere da “stato rifugio” rispetto alle minacce dell’antisemitismo. A differenza dell’Economist, numerosi editorialisti israeliani hanno messo in guardia contro l’incitamento antireligioso. Sul Jerusalem Post Isi Leibler, commentatore secolarista e scanzonato, denuncia “l’isteria e la demonizzazione” di cui sono vittime gli haredim in nome del vecchio tic antigiudaico mentre Gil Troy sul New Republic racconta di un mondo ultraortodosso sempre più integrato nella società israeliana. I livelli di occupazione degli haredim sono molto più elevati di quello che fa credere l’Economist e sempre più haredim studiano materie laiche e servono nell’esercito. L’Economist presenta i coloni come una minoranza di lunatici e fanatici, ignorando non soltanto che una buona parte di essi è laica e moderna, ma anche le ultime statistiche secondo cui presto un israeliano su dieci sarà un colono. Il ministero dell’Interno a Gerusalemme ha appena reso note le statistiche sulla popolazione ebraica che vive nelle aree post 1967, “territori occupati” secondo la comunità internazionale, “Giudea e Samaria” secondo Israele. I coloni hanno superato quota 350 mila, a cui si aggiungono i trecentomila israeliani che vivono nei quartieri sorti a Gerusalemme est dopo il 1967, che però l’opinione pubblica internazionale considera anch’essi “colonie”. La popolazione delle colonie è “raddoppiata” dal 2000 a oggi. L’ultimo sondaggio Maagar-Mahor dice che il 64 per cento della popolazione chiede al governo di proseguire nelle attività di costruzione nei territori (appena il 15 per cento chiede una moratoria). Due settimane fa poi la commissione incaricata di accertare lo status giuridico delle costruzioni israeliane nei territori ha stabilito che “secondo la legge internazionale gli israeliani hanno il diritto legale di insediarsi in Giudea e Samaria e l’istituzione di insediamenti non può essere di per sé considerata illegale”.

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