Provando e riprovando. Soprattutto riprovando.
Testata: Informazione Corretta Data: 09 luglio 2012 Autore: Ugo Volli
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Foto: Galileo Galilei
Cari amici,
avete mai sentito parlare del metodo scientifico? In fondo è grazie ai suoi successi che vi scrivo da un computer, senza alcun contatto materiale con voi, e pure voi mi potete leggere, se non avete di meglio da fare. E’ per merito del suo potere che possediamo automobili e vaccini contro le epidemie più pericolose, trasporti aerei e trapianti di cuore, nozioni sulla struttura del sistema solare e sul funzionamento delle cellule – così, solo per fare qualche esempio. Sapete come funziona? Il metodo scientifico è in sostanza un dispositivo per imparare dagli errori. Si avanza un’ipotesi su qualunque tema rilevante, dalla forma della galassia alla velocità della luce alla composizione chimica dell’acqua minerale che usate bere. Poi si sperimenta questa ipotesi in una serie di casi, cercando di vedere se corrisponde ai fatti oppure se NON funziona. Finché l’ipotesi tiene la si usa come legge scientifica – naturalmente sempre provvisoria, perché questa è la natura delle leggi scientifiche; quando qualcuno mostra che non funziona in qualche caso specifico, bisogna correggerla o abbandonarla e si apre il così campo per nuove ipotesi e nuove sperimentazioni. E’ questo che voleva dire il fondatore italiano della scienza moderna, Galileo Galilei, con il suo slogan “provando e riprovando” – “riprovare” in questo caso non vuol dire, come saremmo tentati di credere “tentare ancora”, ma “rifiutare”. Il metodo galileiano consiste dunque nel mettere alla prova, di testare le conoscenze che supponiamo di avere e di scartare quelle che non superano il test.
Vi starete chiedendo perché vi racconto queste idee, che in apparenza non c’entrano affatto col contenuto di queste cartoline. La risposta è che apprezzo molto l’eleganza del pensiero di Galilei e che mi piace discorrere su questi temi; ma anche che esso mi sembra il più adeguato a continuare il discorso che ho iniziato ieri sulla pace e quel che Israele può o non può fare per ottenerla. Come sapete vi è stata una teoria dominante su questo tema negli ultimi decenni, ancora sostenuta da tutti i benpensanti. Il suo slogan è “pace in cambio di terra”. Io vorrei invitarvi a sottoporre questo atteggiamento politico, che in fondo è anche una teoria sui rapporti politici e delle mentalità del Medio Oriente, da sottoporre alla verifica galileiana. Naturalmente so bene che una cosa è la “scienza dura” fisica o la chimica, altra cosa le discipline umanistiche di cui fa parte la “scienza politica”, che è certamente importantissima, ma assai poco scientifica. E però quello di Galilei è anche buon senso: se avete un bullone da avvitare, provate a usare il cacciavite, ma non funziona, poi il martello, ma non va bene neanche lui; alla fine arrivate alla chiave inglese e ci riuscite. Così va il mondo anche per le faccende più umane e sociali, cioè politiche.
Dunque: pace in cambio di terra. Notate, non la pace di Israele, che in sette guerre negli ultimo settant’anni (tutte di autodifesa, tutte provocate dall’altra parte), ha dimostrato di essere sempre il più forte in cambio della terra araba che è tanta. Qui si parla della pace concessa dagli arabi, che quando hanno provato a far la guerra le hanno sempre prese, in cambio della terra israeliana, che è pochissima: non la metà, non un decimo, non un centesimo, ma un cinquecentesimo circa (22.000 chilometri quadrati contro 12 milioni e mezzo: per Israele il dato è qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Israele, per i paesi arabi potete fare la somma qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Mondo_arabo). Già qui c’è una strana sproporzione, se ci pensate: è una bizzarra teoria che toglie a chi ha poco (terra, deterrenza militare), per dare a chi ha molto e non ne ha bisogno. Comunque, dato che i magnanimi pacifisti hanno ragionato così e così hanno ragionato anche gli ideologi della sinistra che hanno retto Israele per vent’anni dall’abbandono di Ben Gurion al fallimento dei patti di Oslo, proviamo a sottoporre questa teoria al test galileiano – o al semplice buon senso.
Israele si è ritirato dopo Oslo dalla maggior parte di Giudea e Samaria, quel che oggi chiamano “territori palestinesi”. Ne aveva il controllo, li ha ceduti all’Olp in cambio di vaghe promesse di pace, cioè di niente. Prima c’erano della manifestazioni, ma tutto sommato innocue, chiamate “prima intifada”. Che ne ha tratto? Terrorismo a dosi industriali dal 1995 al 2005, poi un governo che le tenta tutte per diffamare e delegittimare Israele, mentre indottrina la sua popolazione all’odio e all’antisemitismo. Ecco una controprova della “terra in cambio della pace”. Molto negativa: dai terra e ottieni terrorismo. Basterebbe, ma…
Israele poi si è ritirato da Gaza nel 2005, spiantando con la forza degli insediamenti produttivi sul piano economico e sociale. Che ne ha ricavato? Un feroce regime islamista, una Tortuga terrorista che si fa fatica a contenere. 25 mila razzi, imboscate, e anche qui provocazione, incitamento, il tentativo di una mobilitazione internazionale. Una guerra. E’ la controprova numero due: terra in cambio di razzi. Strabasterebbe, ma…
Israele si è ritirata dal Libano Sud, che sostanzialmente controllava fino all’inizio dello scorso decennio. Che ha ottenuto? Razzi anche qui, una guerra difficile, il potere di un movimento terrorista come Hebollah. Controprova completamente fallita.
Provando e riprovando. Soprattutto riprovando. Refutando, scartando, escludendo. Tre controprove, tutte disastrose, sono troppe. La vogliamo abbandonare questa teoria della terra in cambio della pace? E’ evidente che cedere terreno in Medio Oriente non provoca pace ma guerra. Eppure c’è ancora chi vorrebbe far ritirare Israele da quel che resta sotto il suo controllo di Giudea e Samaria, cittadine e villaggi che di solito hanno molti decenni di vita, una popolazione intorno al dieci per cento della popolazione ebraica di Israele – magari di nuovo con la forza contro gli abitanti di quei luoghi, spregiativamente chiamati coloni; certamente di nuovo in cambio di niente. Abbiamo già dato, abbiamo già provato. La riprovazione è un debito non verso Galileo, ma verso il buon senso.
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