Non è più lo stesso Egitto, non è più la frontiera di prima.
Alcuni commenti dalla stampa israeliana.
Scrive ZVI MAZEL sul Jerusalem Post: «Si stanno ancora contando i voti e i risultati ufficiali non sono attesi prima di giovedì, ma il candidato della Fratellanza Musulmana Mohamed Morsi si è già trionfalmente proclamato vincitore delle elezioni presidenziali in Egitto, e i suoi sostenitori stanno già celebrando una “vittoria” che il candidato avversario, Ahmed Shafik, contesta vivacemente. La situazione è insieme confusa e instabile. Il parlamento è stato sciolto e con esso anche l’assemblea costituente che doveva redigere la nuova costituzione. Senza costituzione, nessuno sa quali poteri saranno conferiti alla presidenza. Per dipanare la situazione, il Consiglio Supremo delle Forze Armate (la giunta militare al potere dalla caduta di Hosni Mubarak) ha emesso domenica una “dichiarazione costituzionale” che conferisce ampi poteri all’esercito, stabilisce un calendario e delinea le prerogative delle nuove istituzioni civili modificando in buona parte le disposizioni della costituzione temporanea adottata con il referendum del marzo 2011. La Fratellanza Musulmana si oppone con veemenza a questa mossa, che considera mirata ad arginare la sua influenza. Intanto, al confine con Israele, i terroristi che attaccano dal Sinai egiziano, siano essi affiliati a Hamas o ad altra organizzazione, puntano sulla vittoria di Morsi e sulla accresciuta ostilità verso Israele del nuovo regime egiziano. Allo stato attuale delle cose, la dichiarazione costituzionale riduce severamente le prerogative del presidente e accresce quelle dell’esercito. Nulla fa pensare che si tratti di una misura transitoria (in un paese che ha visto restare in vigore per trent’anni lo stato d’emergenza proclamato all’indomani dell’assassinio di Sadat nel 1981). Al contrario, è probabile che sia destinata a restare in vigore anche sotto il nuovo regime dal momento che la giunta militare si è attribuita il diritto di partecipare alla stesura della costituzione anche dopo l’entrata in carica del nuovo presidente. Il quale sarà sì, nominalmente, il comandante in capo delle forze armate, ma non potrà dichiarare guerra senza l’accordo dei generali. E solo il Consiglio Supremo delle Forze Armate avrà il potere di promuovere gli alti ufficiali. […] Funzionerà? E se risultasse eletto Shafik? La Fratellanza, i salafiti e i giovani rivoluzionari lo accetteranno? La Fratellanza ha già detto che scenderebbe nelle strade a protestare contro quello che definisce un atto di tradimento. Come potrà l’esercito affrontare dimostrazioni di massa? Se invece sarà dichiarato vincitore Morsi, questi si batterà contro quello che vede come un tentativo da parte dell’esercito di mantenere il controllo. È chiaro che la Fratellanza vuole una costituzione che sia in gran parte islamica e ha bisogno di essere fortemente coinvolta nella sua stesura. […] Il complesso rapporto fra giunta militare e Fratellanza Musulmana comporta implicazioni vitali per Israele. L’esercito egiziano non è interessato a uno scontro con Israele. È questo probabilmente il vero significato della disposizione che proibisce al presidente di dichiarare guerra senza l’accordo dei militari. L’esercito vuole conservare il ruolo di “eminenza grigia” che aveva negli anni di Mubarak. Che sia possibile, è tutt’altra faccenda. Per quanto riguarda il rapporto fra Egitto e Israele, Shafik sarebbe probabilmente più incline a preservarlo a beneficio del suo paese. Il che non vuol dire che invece la Fratellanza Musulmana cancellerebbe tutt’a un tratto il trattato di pace mandando truppe nel Sinai, cosa che di per sé costituirebbe un casus belli. Più probabile che essa manterrà formalmente in vigore il trattato, riducendo le relazioni al grado minimo e aprendo completamente il confine fra Sinai e striscia di Gaza. Cosa che rafforzerebbe Hamas, permettendole di procurarsi armi in maggiore quantità e di migliore qualità e di intensificare i suoi attentati contro Israele. I recentissimi attacchi nel Negev potrebbero essere forieri di ciò che ci aspetta.» (Da: Jerusalem Post. 19.6.12)
Scrive BOAZ BISMUTH su Israel HaYom: «Chiunque abbia seguito gli eventi nel mondo arabo ricorda cosa accadde in Algeria nel 1991 quando, all’indomani della vittoria elettorale degli islamisti, l’esercito intervenne troncando il processo elettorale. Il resto è storia: una guerra civile durata poco meno di un decennio che costò la vita a centomila civili. Ma in Egitto ci si aspetta uno scenario diverso. La Fratellanza Musulmana non ha bisogno di lanciare una guerra. Gli islamisti in Egitto dispongono attualmente di forza elettorale, di un’efficiente capacità organizzativa, della devozione della popolazione diseredata e soprattutto, in netto contrasto con l’Algeria, di rapporti diplomatici con paesi chiave dell’occidente, compreso il più importante, gli Stati Uniti, il cui presidente Barack Obama nel febbraio 2011 ha mollato il presidente egiziano Mubarak come un abito usato. Nel 1991 il mondo tremava all’idea che gli islamisti prendessero il potere in Algeria. Oggi il mondo intero è pronto a dare ai fondamentalisti in Egitto un’equanime opportunità. Non è solo l’Egitto che è cambiato, è cambiato il mondo. La Fratellanza Musulmana ha vinto un terno al lotto quando la rivoluzione di Piazza Tahrir ha estromesso Mubarak. Forse è per questo che ha reagito in modo piuttosto tranquillo quando i militari hanno messo le mani sul potere, alla vigilia delle elezioni presidenziali. […] I capi della Fratellanza hanno deciso di fare i bravi ragazzi, e hanno le loro buone ragioni. Dopo tutto, sono loro che hanno violato il tacito patto stretto con l’esercito, dopo la rivoluzione di Piazza Tahrir, per scippare la rivoluzione ai giovani occidentalizzanti. Uno scontro fra islamisti e militari era solo questione di tempo. Allora i militari fecero entrare la Fratellanza non solo nel movimento di protesta (sebbene in ritardo), ma anche nell’arena politica. In cambio, alla Fratellanza sarebbe spettata una fetta della torta. Ma la fetta di torta non ha fatto che stuzzicare l’appetito degli islamisti. La Fratellanza, che all’inizio aveva pubblicamente promesso di non candidarsi alla presidenza, ha ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni parlamentari: il 70% dei seggi, insieme agli islamisti salafiti. E ha preso il controllo della commissione incaricata di redigere la nuova costituzione. A quel punto ha messo gli occhi anche sulla presidenza, ma c’era un limite a quanto i militari erano disposti ad accettare. La Fratellanza ha voluto troppo, e troppo in fretta. Alla fine otterrà tutto ciò che desidera, ma in tempi più lunghi. Ecco il motivo della sua attuale reazione relativamente contenuta. La Fratellanza egiziana sa di non aver ancora placato i timori degli intellettuali, delle donne e soprattutto dei tesissimi cristiani copti. Continuerà a diffondere messaggi tranquillizzanti fino alla ripetizione delle elezioni parlamentari. La presa del potere costituzionale in Egitto da parte della Fratellanza Musulmana è solo questione di tempo. Hanno aspettato per decenni, possono aspettare ancora qualche mese o anno. Una cosa è certa: la situazione non si calmerà tanto presto. L’Egitto non sarà l’Algeria, ma certamente non è la Svizzera.» (Da: Israel HaYom, 19.6.12)
Scrive YAAKOV KATZ sul Jerusalem Post: «C’è un che di paradossale nella situazione del Sinai, ha osservato lunedì un alto ufficiale della difesa israeliana. Israele è ufficialmente in stato di guerra con Libano e Siria, eppure quelli sono oggi due confini fra i più tranquilli che ha Israele. “Invece l’Egitto, che pure ha un trattato di pace con noi – ha spiegato l’ufficiale – sta diventando il nostro problema più grande”. La frase riassume la situazione strategica in cui si trova Israele quando deve affrontare la crescente minaccia terroristica che fermenta nelle sabbie bollenti del Sinai. Se vengono sparati dei razzi dal Libano o dalla Siria, Israele sa cosa fare, esattamente come ha fatto in passato: reagire. Anche quando soldati o civili vengono presi di mira da cecchini al confine con la striscia di Gaza, Israele sa cosa fare: rispondere al fuoco. Ma quando si tratta dell’Egitto, non valgono più le automatiche regole di ingaggio che si applicano sugli altri fronti per via della natura dei rapporti fra i due paesi. C’è tensione, ma ufficialmente c’è pace. Vi sono attacchi, ma ufficialmente c’è pace. Mentre Israele può rispondere e reagire militarmente agli attacchi dalla striscia di Gaza, di fronte alle stesse minacce provenienti dall’Egitto ha le mani legate, almeno per ora. […] Da questo punto di vista, per Israele non fa molta differenza se il presidente egiziano sarà della Fratellanza Musulmana o no. In ogni caso, spiegano gli ufficiali israeliani, solo l’Egitto può fermare il terrorismo su suolo egiziano. Se gli attacchi dal Sinai dovessero continuare o intensificarsi, Israele potrebbe essere costretto a riesaminare l’attuale divieto ad ogni operazione militare nella zona e riconsiderare il senso del trattato di pace. Il problema è che i lanci di razzi dal Sinai potrebbero persino diventare un problema minore: cosa accadrà se fra un anno o giù di lì Mohamed Morsi deciderà di inviare truppe a fare “esercitazioni” nel Sinai in violazione del trattato di pace? Cosa dovrà fare Israele? Stracciare il trattato di pace? Entrare in guerra? E’ tutto poco chiaro quando si tratta del nuovo mix egiziano di pace e terrorismo.» (Da: Jerusalem Post, 19.6.12)
Scrive ALEX FISHMAN su YnetNews: «Questo non è più lo stesso Egitto, non è più la stessa frontiera, il trattato di pace è agonizzante e faremo meglio a cambiare in fretta il nostro atteggiamento mentale. La penisola del Sinai è diventata una regione sotto il controllo di uno dei più grandi e potenti cartelli criminali. La “seconda repubblica” egiziana sotto la leadership di un presidente islamista sposterà le tensioni fra Israele ed Egitto dalla disputa politico-territoriale al conflitto religioso. Potrebbe non accadere immediatamente, ma faremo meglio a lasciar perdere gli eufemismi e abituarci al fatto che il confine meridionale di Israele, tutto quel confine, è diventato un confine ostile, un confine di caldo. […] Nelle elezioni presidenziali, il distretto settentrionale del Sinai ha votato per il candidato islamista Morsi, il distretto meridionale a vocazione turistica ha votato per il laico Shafiq. Non si tratta solo della questione socio-economica che vede la zona religiosa e conservatrice contrapposta a quella che vive del turismo sul Mar Rosso. Il Sinai settentrionale e centrale è controllato da tribù beduine che negli ultimi anni si sono trasformate in un cartello criminale sotto ogni punto di vista. Dietro pagamento, sono pronte a compiere attacchi contro Israele, contro l’Egitto o contro chiunque altro. Non c’è traffico illegale – di armi, merci, droga, persone – che non passi attraverso questo cartello. È un cartello che gode di immunità grazie al fatto di trovarsi su suolo egiziano. Israele non può violare la sovranità dell’Egitto per occuparsi del problema. Gli egiziani ci provano, talvolta persino in collaborazione con Hamas che non vede di buon occhio questo cartello. Ma gli egiziani non sono interessati a investire grandi sforzi in questa provincia periferica quando hanno già l’anarchia dentro casa. L’attacco di lunedì scorso ricorda quello dell’agosto 2011. Allora a compiere l’attentato erano stati mercenari egiziani del Sinai arruolati dai Comitati di Resistenza Popolare di Gaza. Anche questa volta non è tanto importante chi ha materialmente eseguito l’attacco: che fossero beduini o palestinesi che vivono nel Sinai o membri della jihad globale, sono tutti collegati al cartello. La domanda è: chi ha ordinato l’attacco e chi l’ha pagato? Una cosa è certa: chiunque ha voluto questo attacco, quello che voleva era incendiare il confine.» (Da: YnetNews, 19.6.12)
Scrive l’editoriale del JERUSALEM POST che gli attacchi contro Israele provenienti dal Sinai «fanno parte di una più ampia strategia ad opera di Hamas, Jihad Islamica, al-Qaeda e altre organizzazioni terroriste islamiste per gonfiare la tensione fra lo stato ebraico e l’Egitto post-Mubarak.» Purtroppo, però «finché in Egitto la situazione politica rimane così instabile, ben poco si può fare per porre fine all’anarchia che imperversa nel Sinai. A parte completare la barriera di sicurezza lungo il confine egiziano ed evitare scontri diretti con le forze militari egiziane, c’è ben poco che Israele possa fare per porre rimedio alla situazione caotica nella penisola.» (Da: Jerusalem Post, 19.6.12)
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