Parliamo una buona volta di profughi. Quelli ebrei
Con poca fanfara, questo mese a Gerusalemme si è tenuto un convegno dedicato a un argomento che è sempre rimasto ai margini del processo di pace e che ha ricevuto solo una minima attenzione da parte dei mass-media. L’argomento è i profughi: non i profughi palestinesi, ma i profughi ebrei.
Da molti anni tutto il mondo sente parlare del “diritto al ritorno” con riferimento agli arabi che divennero profughi durante la guerra difensiva che Israele fu costretto a combattere nel 1948, quando tutti i paesi arabi circostanti lo attaccarono la sera stessa in cui aveva dichiarato la propria indipendenza. Il piano era quello di distruggere Israele “in poche settimane” per poi far tornare gli sfollati arabi ai loro villaggi, un piano che sfumò del tutto perché Israele quella guerra la vinse. Dopo la vittoria, però, nessuno stato arabo fece la pace con Israele e nessuno stato arabo accettò di accogliere i palestinesi sfollati, che furono intenzionalmente trasformati in “profughi permanenti” affinché il mondo percepisse Israele come il “cattivo”.
Oramai da più di sessant’anni la maggior parte di loro (e i loro discendenti, unico caso al mondo di “profughi per nascita”) vive in “campi profughi” da tempo diventati quartieri e villaggi (sotto costante assistenza internazionale). Nel quadro di qualunque eventuale accordo di pace, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) vuole che a questi “profughi” e ai loro discendenti, che oggi ammontano a più di cinque milioni (contro i 5 o 600mila iniziali), venga riconosciuto il “diritto al ritorno”. Naturalmente il loro “ritorno” significherebbe la fine della maggioranza ebraica nell’unico paese al mondo designato come patria nazionale del popolo ebraico. Se non potranno “tornare”, Abu Mazen pretende che vengano indennizzati, anche se indennizzare i complici del progetto di distruggere Israele suona piuttosto assurdo sul piano logico.
Ma ciò che non merita praticamente mai l’attenzione dei mass-media è la questione dei profughi ebrei. Per secoli erano esistite comunità ebraiche in molti paesi arabi. Il loro numero totale si stima che ammontasse a più di 850.000. Il piano di spartizione del Mandato Britannico sulla Palestina approvato nel 1947 dalle Nazioni Unite si tradusse, per loro, in un tremendo sconvolgimento. La creazione del minuscolo stato d’Israele scatenò una durissima reazione da parte dei paesi arabi dove gli ebrei vivevano: persero il lavoro e gli vennero portate via case e terre, i loro beni vennero congelati, molti furono incarcerati, alcuni uccisi. Praticamente tutti, alla fine, furono costretti a fuggire solo con i vestiti che avevano indosso e quel poco che potevano mettere in una valigia.
Il recente convegno a Gerusalemme, volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione dei profughi ebrei, è stato ospitato dal ministero degli esteri israeliano e ha visto la partecipazione di numerosi membri di organizzazioni che rappresentano gli ebrei originari dei paesi arabi. I lavori sono stati aperti dal vice ministro degli esteri Danny Ayalon, egli stesso discendente da una famiglia di origine algerina, che ha richiamato l’attenzione sull’ingiustizia subita dai profughi ebrei. Ayalon ha poi chiesto alla Lega Araba di assumersi la responsabilità per aver causato il problema dei profughi palestinesi scatenando contro Israele la guerra, che a sua volta provocò il loro sfollamento. Ed ha insistito sul concetto che, se i futuri negoziati dovranno occuparsi di indennizzi, dovranno farlo solo su base reciproca, cioè includendo anche i profughi ebrei.
Il convegno a Gerusalemme rappresenta dunque un tentativo di contrastare la “narrazione revisionista” imposta da parte araba, presentando invece fatti storici ben documentati con lo scopo di portare un minimo di equità e di sollecitare i mass-media a occuparsi di questa componente del “processo i pace” troppo a lungo trascurata. Se ciò basterà a riportare un po’ di equilibrio nelle due opposte “narrazioni” resta tutto da vedere.
israele.net
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