Testata: Informazione Corretta Data: 25 gennaio 2012

Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli.

 

Cari amici,

adesso che si sono calmate le acque, mi sento in dovere di spendere una cartolina alla questione dei charedim, gli “ultraortodossi”, su cui si è accesa una dura polemica nelle ultime settimane. Non lo faccio per affinità ideologica: chi mi conosce sa che io sono impegnato nel polo opposto dell’arcobaleno religioso ebraico, essendo il presidente della maggiore sinagoga modernista in Italia. Ma credo che sia necessario farlo, perché colgo dei sottotoni antisemiti in questa campagna, anche quando è svolta da ebrei. Non è una novità. Alla fine dell’Ottocento la popolazione ebraica dell’Europa occidentale, che sembrava ben integrata nei paesi di residenza, fu investita da una pesante ondata antisemita: il caso Dreyfus in Francia, le campagne di Civiltà Cattolica in Italia, il successo di partiti antisemiti in Austria e in Germania, ecc. Nel frattempo molti ebrei orientali cercavano di sfuggire in Occidente ai violentissimi pogrom scatenati nell’Impero russo. La reazione delle élites ebraiche fu complessa, ci fu una difesa della libertà di coscienza, la rivendicazione dei meriti rispetto alla nazione ecc. ma spesso non sfuggì alla tentazione di attribuire la colpa dell’antisemitismo alla non integrazione degli ebrei orientali, alla loro fedeltà ai costumi tradizionali. Spesso insomma non sfuggì alla tentazione di unirsi ai pregiudizi antisemiti, scaricandoli sugli “incivili, ignoranti, primitivi” ultimi immigrati. Come sappiamo, l’integrazione della maggioranza ebraica non la preservò dall’odio e dallo sterminio della Shoà.
Ho la sensazione che qualcosa del genere stia accadendo oggi.
Una parte del mondo ebraico e anche israeliano, bene integrata nel costume occidentale e politicamente corretta, ha la tentazione di scaricare il dilagante odio antisemita contro Israele indicando due capri espiatori spesso indebitamente confusi fra loro. Da un lato si demonizzano i “coloni”, cioè coloro che risiedono nei villaggi e nelle città oltre la “linea verde” dell’armistizio del ’49, che secondo i benpensanti per qualche decreto divino dovrebbe essere Judenrein ovvero “territorio palestinese” (mentre naturalmente Israele dovrebbe essere permeabile all’immigrazione araba, per via matrimoniale o per il “ritorno” alla presunta residenza di settant’anni fa, come se i tedeschi volessero tornare alle case di Praga o gli italiani a quelle di Fiume e Nizza…). E dall’altro si dipingono come mostri i charedim, che hanno la pretesa di vivere la loro vita religiosa e civile secondo le modalità in uso nell’Europa orientale di prima della repressione comunista e delle stragi naziste – gli stessi costumi, sia detto per inciso, degli emigranti che scandalizzavano i bravi borghesi ebrei tedeschi o italiani di cent’anni fa.
E’ chiaro che ci sono dei comportamenti intolleranti di alcuni charedim, come quelli che hanno infastidito una bambina (appartenente a una comunità di “sionisti religiosi” vicina ai coloni, non certo alla sinistra secolarizzata di Tel Aviv, sia detto per inciso) e gli altri che si agitano per delegittimare lo stato di Israele. Come è chiaro che vi sono dei violenti e dei teppisti, perfino degli omicidi fra i “coloni”, dei nemici del popolo ebraico e dei disonesti fra gli intellettuali laici (per esempio certi “nuovi storici” “postsionisti”). Ma si tratta comunque di parti del popolo ebraico. I charedim, divisi in moltissime piccole comunità  assai diverse fra loro, non sono tutti responsabili degli episodi, tutto sommato abbastanza rari dato che parliamo di una popolazione vicina al milione di persone, in cui degli esagitati hanno cercato di imporre il proprio modo di vivere agli altri. Certo, essi applicano un modo di vivere che un occidentale del nostro tempo non può condividere, ma non si vede perché debbano per forza essere forzati ad adottare il nostro, sempre che ogni singolo appartenente alla loro comunità non sia costretto con la forza ad adeguarsi e possa uscirne, com’è certamente il caso. Gli studi mostrano che le loro comunità sono in espansione demografica, ma naturalmente le proiezioni sono molto incerte, dato che si tratta di una comunità culturale e non di un gruppo territoriale o etnico e i fattori socioculturali sono essenziali. Di fatto ricerche e testimonianze mostrano una progressiva maggiore integrazione alla società israeliana, che è molto giovane e in  via di assestamento: vi sono sempre più charedim nelle università, nell’esercito, nei luoghi di lavoro. Non vi è nessuna ragione per cui lo studio della Torah, che spesso nelle yeshivot è a livello di alta cultura, non possa conciliarsi con una vita produttiva e una partecipazione costruttiva alla cittadinanza. Soprattutto non c’è nessuna ragione per cui uno stato che si vuole ebraico e democratico debba cercare di imporre con la forza il laicismo. Deve tutelare i più diversi stili di vita e se lo fa con grande successo nei confronti della fiorente cultura omosessuale di Tel Aviv, di cristiani e musulmani che sono liberi di vivere secondo le loro leggi e fedi, non si vede perché non lo debba fare per coloro che possono rivendicare un legame diretto con la tradizione ebraica orientale – la stessa, fra l’altro che con la sua fede pura e ingenua delizia gli spettatori e i lettori di storie yiddish. Un discorso analogo andrebbe fatto sui “coloni” e i sionisti religiosi, che oggi sono fra i più fedeli difensori di Israele: come non si stancano di ripetere gli arabi, non vi è una differenza di principio fra gli insediamenti a Est o a Ovest della linea verde. I pacifisti di Tel Aviv sono per gli arabi “coloni” come quelli che abitano ad Ariel o a Ghilo (che è un quartiere di Gerusalemme). Isolandoli e demonizzandoli, ci si presta al giochino degli Orazi e Curiazi, o più volgarmente a quello del salame che i “palestinesi” applicano consapevolmente: dividere i nemici e combatterli uno per volta, frazionare il territorio e impadronirsene piano piano. La sola risposta ragionevole da parte di chi difende Israele è quella di sapere che il popolo ebraico è uno, che non esiste un antisemitismo davvero parziale. Chi nel mondo arabo o nella sinistra se la prende con i charedim o con i “coloni” in realtà ha di mira tutta Israele.

 

2 Responses to Il popolo ebraico è uno.

  1. Marco Piantoni ha detto:

    Che il popolo ebraico fose uno solo già lo sapevo, anche prima di conosceere gli ebrei e di recarmi personalmente beYisrael. Il vero problema sta nel fatto che lo Stato di Israele, quanto meno, certe sue iniziative, hanno molto poco di ebraico e parecchio di inquisitorio. posso essere d’accordo con la cautela verso un turista isolato al suo primo viaggio, anche al secondo, ma sottoporre detto turista, ogni volta che si reca o lascia beYisrael, ad un trattamento che dire vergognoso e umiliante sarebbe poco, a me pare davvero lontanissimo da quella che sarebbe l’anima dell’ebraismo. Così, dopo sei viaggi, e relative dodici assurde, finanche terroristiche se non fasciste perquisizioni integrali con annesso sequestro di bagagli chissà perchè sospetti, alla settima volta mi sono concesso il diritto di contestare tutta la mia civile indignazione. E cosa ha fatto lo Stato di Israele? Mi ha interdetto l’accesso, trattandomi come un immigrato clandestino. Nella pubblicità che ElAl propone ogni volta sulle Pagine Ebraiche sarebbe opportuno specificare che questo, è Israele, piuttosto che non la patinata vacanza da Sheraton o da Carlton.

  2. michele ha detto:

    Credevo di essere un “open mind”, di saperne abbastanza, di essere curioso a sufficienza ecc. ecc.
    Da quando leggo le sue cartoline, al contrario, mi si sposta sempre in avanti il confine dell’ignoranza ( e sono semplici cartoline ).
    La devo ringraziare ?
    Si. Se solo fosse stato un mio prof qualche lustro fa !
    Grazie.
    michele primavera

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