Un articolo di Lorenzo Cremonesi su Corriere della Sera

[b]così, nel silenzio internazionale, si rafforzano i diktat di hamas[/b]

[b]Spiagge vietate alle donne, artisti sotto tiro. Ma anche frustate quotidiane e cantine diventate stanze di tortura
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GAZA – Chiede ai pacifisti stranieri che promettono la ripresa dei loro viaggi sulle navi di portare, assieme agli aiuti per i palestinesi, anche un mixer per il suo gruppo musicale. Ma lo fa in contrasto con quello stesso regime nella striscia di Gaza che i pacifisti più o meno indirettamente aiutano contro l’embargo imposto da Israele. «Il nostro vecchio mixer è stato sequestrato dalla polizia di Hamas», spiega, con il timore che anche quello nuovo subisca la stessa sorte del primo. «Siamo vittime di una teocrazia repressiva che in nome della sua lettura distorta dell’Islam vieta la musica libera. Il loro Allah in verde non ci piace per nulla». E’ l’ironico paradosso vissuto dal ventenne Basher Bseiso, cantante molto popolare del “Gruppo della pace” (Fariq Salam) tra i giovani di Gaza amanti del “rap”. Ben riassunto dall’appello che lancia dalla sua casa Jamal Abu Al Qumsan, 43enne direttore della più nota galleria d’arte nella “striscia della disperazione”: «Grazie ai democratici di tutto il mondo che lottano contro l’embargo israeliano su Gaza. Però, per favore, potete in parallelo denunciare anche la repressione di Hamas contro le libertà intellettuali?».

[b]La gente di Gaza[/b]








ATTACCHI CONTRO LE ORGANIZZAZIONI GIOVANILI – Le loro sono solo due storie tra le infinite che si possono trovare nella regione. La più scottante ultimamente è quella degli attacchi contro le organizzazioni giovanili. E’ avvenuto il 23 maggio e il 28 giugno, quando una ventina di militanti armati e mascherati di Hamas hanno dato fuoco al campo estivo organizzato per gli studenti sul lungomare dalle Nazioni Unite. E alla fine di maggio, proprio il giorno del blitz dei commando israeliani contro la flottiglia pacifista che ha causato 9 morti, la polizia di Hamas qui ha chiuso ben cinque organizzazioni non governative locali. La più nota, Sharek (17 filiali nei territori palestinesi, di cui 5 nella striscia di Gaza), a sua volta si è vista bruciare due campi estivi studenteschi sulla spiaggia. Accusa uno dei dirigenti, Mohammad Aruki: «Vogliono obbligarci a chiudere i campeggi misti. Ci dicono che ragazzi e ragazze vanno separati. Così mirano a sradicare la cultura laica, cercano il monopolio sull’educazione». E’ l’ennesimo capitolo della guerra culturale in atto da tempo. Le ali più oltranziste del fronte religioso vogliono fermare la spiaggia alle ragazze, vietano la privacy alle coppiette non sposate, vedono la musica e le mode occidentali come un pericolo per la “moralità” pubblica. A chiedere spiegazioni agli esponenti di Hamas la risposta è in genere la stessa: «I ministeri, le nostre autorità civili, non c’entrano. Occorre rivolgersi alla polizia». Ma dagli agenti impera il no comment. Il più esplicito è stato Ahmed Yussef, vice ministro degli Esteri e presidente del Comitato contro l’embargo: «Israele ha il monopolio della forza. Hamas è molto più debole e cerca unicamente di imporre una sola sovranità nella striscia».

VERO REGIME – Il problema maggiore è che i testimoni, le stesse vittime, hanno paura a parlarne. Hamas è ormai un regime padre-padrone della sua gente. Punizione non vuole solo dire prigione, o persino tortura, ma piuttosto ostracismo, perdita del posto di lavoro, denigrazione, isolamento sociale. Bseiso parla con rabbia del pestaggio subito lo scorso 28 aprile. «Mi stavo spostando in moto, quando sono stato affiancato da un gruppo di miliziani delle Ezzedin Al Qassam, che mi hanno buttato a terra e picchiato con bastoni. Pochi giorni prima avevano fatto irruzione nel nostro studio e sequestrato video, telecamere, cassette. Ora, con mezzi di fortuna sto preparando una canzone di accusa contro la repressione di Hamas», dice. Il suo compagno nel gruppo, Ibrahim Ghonem, ricorda che sino al 2005, quando a Gaza e in Cisgiordania governava la stessa autorità dell’Olp costituita da Yasser Arafat nel 1994, la situazione era molto migliore: «In quel periodo nacquero almeno cinque gruppi rap a Gaza. Nessuno interferiva. Ora ci dicono che siamo agenti del Satana americano, corruttori di giovani. E il risultato è che chiunque può se ne va, emigra. Addirittura so di alcuni amici di altri gruppi rap che hanno approfittato di inviti a concerti all’estero per imboscarsi e non tornare più». A Jamal Abu Al Qumsan è andata peggio. Sino a qualche giorno fa non poteva sedere o sdraiarsi sulla schiena per le frustate subite a intermittenza tra il 5 e 12 maggio. Una punizione curiosa e molto diffusa la sua. Vieni convocato alla polizia nei centri carcerari. Non c’è molta scelta. La famigerata Saraya, nel cuore di Gaza city, è stata rasa al suolo dai bombardamenti israeliani della “Piombo Fuso” nel gennaio 2009. Restano però i Mashtal, i cinque carceri provinciali, e Ansar, dove si trovano i capi dei servizi di sicurezza. Qui inizia l’interrogatorio. «Dalle sette di mattina a sera tarda, talvolta oltre mezzanotte. La punizione più comune è tenerti conto un muro tutto il pomeriggio in pieno sole e obbligarti a esercizi assurdi. Per esempio viene ordinato di fare il ciclista, per ore e ore costretto a fingere di pedalare. Poi ti rimandano a casa. Così non figuri nell’elenco dei prigionieri, non devono neppure sfamarti. Solo ogni tanto un bicchier d’acqua. E la mattina devi essere puntuale di fronte al portone», racconta Jamal. A lui comunque è andata male. «Mi hanno accusato di corrompere le ragazze, di lasciar loro fumare il narghilè nei locali della mia galleria, addirittura di abusi sessuali. Così hanno usato cinghie e bastoni».

STANZE DI TORTURA – Ma poteva andar peggio. Fosse finito nella ex villa sul lungomare del presidente dell’Autorità palestinese a Ramallah, Abu Mazen, sarebbe restato in isolamento per mesi. Qui raccontano che le cantine sono adibite a stanze per la tortura dei “nemici dell’Islam”. Sono tecniche raffinate. Ci sono spie mischiate ai prigionieri. Meccanismi imparati direttamente dai carceri israeliani. Non esiste militante palestinese sopra i trent’anni che non li abbia sperimentati sulla sua pelle. La pressione psicologica è spesso molto più efficace di quella fisica. Fin qui tutto normale. Nei carceri del Fatah in Cisgiordania, dove la caccia ai militanti di Hamas resta aperta, le tecniche persecutorie sono molto simili. «La novità di Gaza sta nella crescente influenza dei sistemi utilizzati dai Basiji iraniani. Le teste di cuoio tra i gruppi scelti delle Ezzedin Al Qassam sono stati direttamente istruiti da loro. Il fine è quello di imporre una sorta di totale e totalizzante conformismo politico e culturale. Chiunque non si omogeneizza deve sapere che è a rischio. E pochi sono gli eroi. Spesso bastano alcune velate minacce per ottenere l’effetto voluto», sottolinea un noto commentatore locale, che parla sotto la promessa del più assoluto anonimato. Asma Al Ghuol, giornalista impegnata nella difesa delle libertà intellettuali, si è vista di recente sequestrare il computer e minacciare personalmente di essere “amorale” per la sua denuncia pubblica contro la censura a musicisti e scrittori. Una sua collega che collabora con la tv Al Arabya è stata arrestata pochi giorni fa perché scoperta dagli agenti viaggiare in auto in compagnia di un ragazzo che non era membro della sua famiglia.

SCENARIO SIMILE ALL'IRAQ – Abu Omar (è un nome finto), anziano militante del Fronte per la Liberazione della Palestina, esprime la sua dissidenza in privato: produce vino di nascosto nel campo profughi di Jabalia e ne vende 100 litri l’anno. «E’ la mia sfida contro il divieto dell’alcool imposto dagli islamici, contro le ingerenze nel nostro privato, come se fossimo sotto i talebani», dice mostrando la foto di Hassan Mohammad Hajazi, suo amico e attivista assassinato da Hamas nel gennaio 2009 approfittando del caos generato dall’attacco israeliano. «Il dramma è che se mostro questa foto per la strada vengo arrestato». Sono gli effetti perversi dell’embargo israeliano. Uno scenario che ricorda da vicino quello imposto contro l’Iraq di Saddam Hussein negli anni Novanta sino alla guerra del 2003. Il blocco economico, l’isolamento, la messa all’indice generano enormi difficoltà sul piano internazionale per il regime colpito, ma lo rafforzano internamente e gli forniscono indirettamente la legittimazione agli abusi anche più gravi nei confronti delle proprie popolazioni. Sostiene Atef Abu Saief, brillante docente di scienze politiche alla locale università Al Azhar: «Hamas controlla Gaza molto meglio che un paio d’anni fa. Anche se la sua popolarità è in diminuzione. Ma questo non lo potremo verificare. Le libere elezioni, così come nel 2006, sono ormai impossibili. Al meglio, nel caso si torni alle urne, vedremo un accordo sottobanco per la spartizione dei voti con Fatah. La teocrazia di Hamas segna la fine del sogno democratico». Commenta un noto giornalista assunto dalle agenzie stampa straniere che assolutamente chiede di restare anonimo: «La differenza con l’Iraq è che nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 le elezioni parlamentari del gennaio 2006 sono state stravinte in modo pulito da Hamas contro Fatah. Tra le sinistre occidentali fanno bene a puntare il dito contro i loro governi che rifiutano quel voto. Non è possibile accettare in democrazia solo i risultati che ci piacciono e rifiutare quelli sgraditi. Però adesso non ci si accorge che la popolarità di Hamas a Gaza è in caduta libera. E’ una situazione curiosa e riflette l’antica propensione palestinese a schierarsi sempre contro chi vince. Se oggi si andasse alle urne, in Cisgiordania potrebbe ottenere la maggioranza Hamas, ma a Gaza il Fatah». «Hamas come Hitler, o meglio, come gli islamici in Algeria», rincara Saief. «Ecco perché Yasser Arafat, sino alla sua morte nel novembre 2004, si rifiutò sempre di tenere elezioni con Hamas. Sapeva che un voto libero con gli islamici al governo non avrebbe mai più potuto aver luogo per il fatto molto evidente che la dottrina dei Fratelli Musulmani non dà alcun valore alla democrazia». A suo dire qui sta la debolezza di Abu Mazen: aver permesso ad Hamas di presentarsi al voto del 2006. «Si illudeva di battere il suo avversario nell’Olp locale, Mahmoud Dahlan, che in veste di capo della polizia di Arafat a Gaza e a causa dei suoi stretti legami con la Cia era fortemente impopolare. Ma non ha capito che apriva le porte a Hamas. Ora si dovrebbe tornare alle urne. Ma non avverrà più in modo pulito».

HAMAS E L'IRAN – Saief ripete la teoria che va per la maggiore da Gaza al Cairo: Hamas non ha alcun interesse a mettere a rischio lo status quo, non cerca un vero accordo con Abu Mazen, non vuole il voto e neppure contatti con Israele. «Hamas è legata ai Fratelli Musulmani e l’Iran. Controlla una base territoriale, ha un progetto più pan-islamico e molto meno nazionalista. Non cerca il compromesso, vede Gaza come il rilancio della guerra santa globale. Ecco perché a farne le spese sono ora gli intellettuali e qualsiasi entità indipendente nelle zone sotto il suo controllo», aggiunge. Non è da nascondere che i perseguitati sono in genere militanti dell’Olp, o comunque legati al vecchio fronte laico della sinistra palestinese. «Atef non è credibile. E’ un intellettuale organico del Fatah, nostro nemico ideologico per eccellenza», replica per esempio Taher Al Nunu, portavoce di Hamas. E infatti Atef nel giugno 2009 si è fatto oltre una settimana di “carcere giornaliero”. Ricorda: «Non c’era violenza vera. Solo fastidio, tanta sete al sole, grande perdita di tempo e interrogatori spossanti». Ora è preoccupato. Ai primi di giugno è stato riconvocato alla polizia per 24 ore. Teme censurino il suo libro di short stories appena pubblicato in arabo: «Natura morta. Storie dal tempo di Gaza». La censura è strisciante, minacciosa, immanente. Ne parla Mohammad Aruki mostrando la zona del suo campo di tende devastato dal fuoco. Tra i capi di accusa nei loro confronti c’è anche un sondaggio condotto tra i giovani di Gaza in cui si conclude che almeno il 41% spera di emigrare all’estero. E il motivo portante di tanta disaffezione è la crescita delle accuse contro la corruzione e il nepotismo dei dirigenti islamici. I toni sono simili a quelli che imperavano contro i capi di Fatah prima del voto del 2006. Lo stesso leader di Hamas, il cinquantenne Ismail Haniyeh, si vede messo in dubbio tra l’altro per aver sposato come seconda moglie la vedova 22enne di una delle guardie del corpo di Said Siam, noto militante ucciso dalle bombe israeliane nel 2009. Sottolinea Aruki: «Per Hamas il nostro sondaggio è una grande debacle. Dimostra che i giovani non vogliono più lottare. L’embargo israeliano è terribile, ci impedisce ogni movimento, siamo in una grande prigione a cielo aperto. Però è morto lo spirito delle due intifade. Si vuole fuggire nel privato, stare bene individualmente. Una volta c’erano studenti che rifiutavano le rare borse di studio all’estero pur di restare a combattere collettivamente l’occupazione sionista. Oggi tutti vorrebbero emigrare e a bloccarci non è solo Israele. L’Egitto fa passare con il contagocce la gente da Rafah. E Hamas concede il permesso di emigrazione unicamente ai suoi militanti. Gli altri sono solo sudditi da convertire alla sua lettura dell’Islam».

Lorenzo Cremonesi
14 luglio 2010

 

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