[b]Analisi di Carlo Panella, Vittorio Emanuele Parsi, David Braha, Redazione del Foglio, Michele Giorgio[/b]

fonte: [b]Informazione Corretta [/b]

Testata:Libero – La Stampa – Informazione Corretta – Il Foglio – Il Manifesto
Autore: Carlo Panella – Vittorio Emanuele Parsi – David Braha – La redazione del Foglio – Michele Giorgio – Fulvia Caprara
Titolo: «Le sanzioni contro l’Iran sono una barzelletta – Clinton: sanzioni. Teheran si smarca – Obama e la questione nucleare: la differenza tra teoria e pratica – Riflessi lenti sull’atomica iraniana – Gli Usa: Tehran bara, accordo all’Onu per nuove sanzioni – K»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 19/05/2010, a pag. 23, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Le sanzioni contro l’Iran sono una barzelletta ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Clinton: sanzioni. Teheran si smarca ", a pag. 36, l'articolo di Fulvia Caprara dal titolo " Kiarostami & Binoche. Lui si 'pente', lei piange ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Riflessi lenti sull’atomica iraniana ". Dal MANIFESTO, a pag. 8, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " Gli Usa: Tehran bara, accordo all’Onu per nuove sanzioni ", preceduto dal nostro commento. Pubblichiamo l'analisi di David Braha dal titolo " Obama e la questione nucleare: la differenza tra teoria e pratica ". Ecco i pezzi:

[b]LIBERO – Carlo Panella : "Le sanzioni contro l’Iran sono una barzelletta "

Carlo Panella[/b]

«Un fiasco per l’ammi – nistrazione Obama»: il Wall Street Journal è impietoso nel commentare l’accordo sul nucleare siglato due giorni fa a Teheran tra Ahmadinejad, il presidente del Brasile Lula e il premier turco Erdogan. La spiegazione di questo giudizio tranciante è semplice e sotto gli occhi di tutti: «Il “colpac – cio” di Teheran» rende istantaneamente irrilevanti 16 mesi di diplomazia obamiana e forse assesta il colpo di grazia agli incerti sforzi dell’Occi – dente per impedire all’Iran di dotarsi di una bomba atomica. Pieno merito per questa dèbacle va all’amministrazione Obama e alla sua sventurata strategia diplomatica: invece di mettere l’Iran in un angolo questa primavera, Ahmadinejad ci ha messo Obama. La meccanica di questo autogol del presidente Usa è elementare e deriva tutta dalla “svolta storica” che Obama ha dato alle relazioni col mondo musulmano e con l’Iran, tutta e solo basata sulla forza risolutrice del “dialogo”. Strategia anche accettabile, a patto però che l’avversario con cui si tenta l’accordo, soprattutto se è fatto della stoffa della dirigenza iraniana, sia sempre cosciente che se bara, se in realtà punta solo a prendere tempo e per costruire così in pace la sua atomica, pagherà un prezzo salato, anche in termini militari. Invece Obama non solo non ha mai parlato di una possibile sanzione militare ad un Iran atomico, ma addirittura, come ha più volte dichiarato lo stesso vice-presidente Joe Biden, «non ha disposto alcun piano B nel caso il dialogo con Teheran fallisse». Implacabile il Wall Street Journal il più autorevole quotidiano economico del mondo, così continua: «Un esito disastroso di cui bisogna ringraziare il doppio gioco diplomatico di Erdogan e Lula, ma soprattutto il presidente Usa, la cui diplomazia è riuscita principalmente a persuadere gli stati canaglia del mondo che non ha la determinazione per fermare le loro ambizioni distruttive». L’accordo di Teheran, si badi bene, è solo un’applicazio – ne del gioco delle tre tavolette: il punto della rottura delle trattative con l’Onu riguardava infatti l’assoluta indisponibilità iraniana di consegnare fuori dai suoi confini tutto il suo uranio (in modo da poter arricchire senza problemi il restante) e anche a permettere agli ispettori della Aiea un serio programma di controllo nelle strutture iraniane. Di quest’ultimo punto centrale, però, l’accordo non parla minimamente e quanto allo scambio all’estero propone che sia solo 1.200 chili, ma l’Iran dispone ormai di almeno 2.500 chili di uranio e quindi può arricchirne più di metà, indisturbato, sino all’atomica. Questo “accordo fiasco” ha solo uno scopo, che probabilmente perseguirà: impedire le sanzioni dell’Onu. Ieri, Hillary Clinton, ha annunciato trionfalmente che i 5 membri permanenti del Consiglio, hanno finalmente raggiunto un accordo sulle sanzioni. Ma subito Erdogan (che con Lula fa parte oggi del Consiglio) ha tuonato: «Dopo l’accordo di Teheran, dobbiamo smettere di parlare di sanzioni contro l’Iran e lancio un appello alla comunità internazionale perché lo sostenga in nome della pace mondiale ». Ha anche chiesto che Brasile e Turchia entrino nel gruppo 5+1 che conduce le trattative con l’Iran. Richieste tanto forti e condizionanti, che saranno con ogni probabilità accolte dalla “comunità internazionale”. Non si vede infatti come ora Obama posso rifiutare un altro inutile round negoziale tra Iran e Onu – che infatti Ahmadinejad ha subito chiesto – sospendendo ancora e chissà sino a quando sanzioni ormai avvolte in una aura tragicomica.

[b]La STAMPA – Vittorio Emanuele Parsi : " Clinton: sanzioni. Teheran si smarca "

Vittorio Emanuele Parsi[/b]

E così, proprio mentre sembrava messo all'angolo dagli sforzi occidentali per l'inasprimento delle sanzioni, l'Iran ha mosso. E che mossa.
Grazie all’accordo con Brasile e Turchia per lo scambio di uranio scarsamente arricchito con combustibile nucleare, in un colpo solo è riuscito a far tornare in alto mare qualunque prospettiva di intesa raggiunta ai danni delle proprie ambizioni nucleari e a incrinare ulteriormente la stessa nozione di comunità internazionale, la cui volontà, soprattutto dalla fine della Guerra Fredda, è stata fatta coincidere troppo spesso con quella occidentale o americana.
Per riuscirci si è appoggiato a due Paesi fino a poco tempo fa confinati a un ruolo regionale più sognato che effettivo (come il Brasile) o per nulla inclini a intralciare la politica globale degli Stati Uniti, anche quando questa destabilizzava pesantemente l'equilibrio della propria regione (come la Turchia). In particolar modo con la presidenza Lula, il Brasile ha smesso di baloccarsi con l'idea che l'essere il gigante del Sudamerica potesse alimentare le sue aspirazioni alla leadership regionale, invece che renderla virtualmente impossibile. Anche a causa di una serie di insuccessi patiti, il Brasile da alcuni anni ha capito che proprio quel gigantismo che gli impediva di proporsi come primus inter pares in Sudamerica legittimava invece le ambizioni a giocare una politica globale, perseguita innanzitutto con la ricerca di accordi con il Sudafrica, l'India, la Cina, la Russia stessa. Allo stesso tempo, e in maniera per nulla paradossale, il Brasile di Lula si è progressivamente sfilato dalle posizioni sterilmente «antiyanqui» classiche della retorica politica latinoamericana. Un po’ come avvenne per l'Inghilterra, che con la definitiva sconfitta nella Guerra dei Cento Anni non poté più giocare la partita continentale e fu «costretta» a giocare una partita mondiale. Analogamente, il fallimento su scala regionale ha costretto il Brasile a pensare molto più in grande, favorendone l'incredibile crescita di ruolo di questi anni.
La Turchia di Erdogan, dal canto suo, ha progressivamente dovuto trovare un proprio posizionamento strategico indipendente, che le consentisse di uscire dalla stretta in cui l'avevano cacciata il sostanziale rifiuto europeo della sospirata membership e la presenza sempre più diretta e aggressiva degli Usa in Medio Oriente. Dismesse le velleità del panturchismo (l'unificazione o la leadership dei popoli di lingua turca dall’Anatolia al Caucaso all'Asia centrale), Ankara ha ricominciato a pensarsi nel Medio Oriente e, anche aiutata dalle inclinazioni ideologiche dell'AKP, ne ha tirato alcune implicazioni: ha raffreddato le relazioni con Israele (che rischiavano di zavorrarne l'azione), si è riavvicinata alla Siria e, soprattutto, ha deciso di intavolare un «dialogo strategico regionale» con l'Iran, la vera potenza emergente nell'area.
Gli iraniani, una volta individuata la breccia nello schieramento internazionale, ci si sono infilati di gran carriera, consapevoli che, una volta palesata, si sarebbe immediatamente allargata. E infatti così è successo: con il ritorno di Russia e Cina a una posizione molto tiepida sulla prospettiva di altre sanzioni, nonostante l’annuncio da parte di Hillary Clinton di un accordo su un nuovo testo. Ora anche la Francia appare titubare, preoccupata che, a questo punto e almeno per un po’, ogni tentativo di mostrare determinazione verso Teheran possa rendere ancora più evidente che sulla questione della non proliferazione la posizione occidentale è sempre più solitaria. Sulla proliferazione, in realtà, gli interessi degli attori sono disposti per cerchi concentrici. Al nucleo, i più interessati restano gli americani, che (come i russi) sono una delle due principali potenze nucleari, ma che (diversamente dai russi) sono anche i principali azionisti, fruitori e garanti di un sistema internazionale che resta ancora disegnato da Washington. Un po’ più esterni sono gli europei, che in quell’ordine si riconoscono, ma che sono disponibili o rassegnati a un suo parziale superamento e comunque appaiono assai meno decisi a difenderlo «a qualunque costo». Molto più esterni sono gli altri grandi attori, emergenti o riemergenti: dalla Cina alla Russia (appunto) all’India, al Brasile alla Turchia, le cui politiche concretamente annunciano che la centralità occidentale dell’ordine internazionale è in via di rapido superamento.

[b]INFORMAZIONE CORRETTA – David Braha : " Obama e la questione nucleare: la differenza tra teoria e pratica "

David Braha[/b]

Appena un mese fa il mondo ha lodato all’unisono l’operato di Barack Obama. Al Summit sulla Sicurezza Nucleare di Washington dello scorso 12 Aprile, il Presidente USA ha riunito ad un tavolo quarantasette rappresentanti e capi di governo da diversi paesi. Lo scopo? Incrementare le misure di sicurezza attorno a materiali nucleari che potrebbero cadere con relativa facilità nelle mani di organizzazioni terroristiche, o che potrebbero causare disastri accidentali a causa dell’inadeguatezza delle strutture che li ospitano al momento. Gli accordi stipulati prevedono il trasferimento dell’uranio arricchito in speciali strutture statunitensi e russe, nelle quali il pericoloso materiale verrà convertito in un tipo di uranio inadoperabile al fine bellico. Non solo. Nel mese precedente al vertice di Washington, l’inquilino della Casa Bianca ha raggiunto un accordo con la Russia al fine di ridurre drasticamente il numero di testate nucleari in possesso delle due potenze un tempo rivali. Come se non bastasse, Obama ha anche siglato un impegno denominato “Nuclear Posture Review”, secondo il quale gli Stati Uniti non faranno mai uso di armi nucleari contro paesi che non possiedono tale tecnologia, un impegno esteso anche all’evenienza in cui l’America venisse attaccata con armi biologiche o chimiche. Tutti questi sono i risultati del lavoro di un giovane Presidente che appena ventisette anni fa scriveva una tesi universitaria sulla riduzione degli arsenali nucleari, e che ora si trova ad essere l’uomo più potente al mondo.

In fondo Obama non ha mai nascosto che tra le priorità della sua Amministrazione in fatto di sicurezza interna ed internazionale vi sono a) prevenire che armi nucleari finiscano nelle mani sbagliate; b) procedere lungo il percorso di un lento ma continuo disarmo, finalizzato alla totale eliminazione della minaccia atomica dal mondo. La prima è un’ulteriore misura che rientra nel programma di lotta al terrorismo globale; il secondo, un obiettivo dettato da un’ideologia ben precisa. A più riprese infatti il Presidente USA ha affermato di sognare un mondo privo di armi nucleari. Il problema è che, nonostante queste due nobili idee siano poi state effettivamente seguite da azioni concrete, vi sono due elementi che dovrebbero destare preoccupazione. Il primo è l’ormai noto fatto che nei confronti di una minaccia concreta come l’Iran, Obama sta ancora usando il guanto di velluto: se con il Summit di Washington ha “fatto vedere i muscoli”, mostrando le proprie doti di leadership internazionale, ciò è avvenuto con paesi con i quali le trattative sono relativamente semplici. O almeno, sono semplici se messe a confronto con l’arroganza del regime degli Ayatollah. Riguardo quest’ultimo, appunto, ancora si stanno discutendo eventuali sanzioni, senza che nessuna azione concreta si materializzi. E quindi, dove sono finiti i muscoli della Casa Bianca in questo caso?

Tuttavia, altrettanto preoccupante è il fatto che un Presidente degli Stati Uniti d’America auspichi ad un futuro senza armi nucleari, ma soprattutto che ci creda. Questa non è una dichiarazione d’amore nei confronti della guerra, della morte, o del fungo nucleare: a chi di noi non farebbe piacere apprendere di una riduzione degli arsenali e delle testate? Ma allo stesso tempo bisogna pensare in maniera razionale, realistica. Per quanto ottimisti si possa essere, non si può “disinventare” una tecnologia che ormai esiste. E comunque i paesi che già possiedono l’atomica – inclusi gli USA – non rinuncerebbero mai alla posizione privilegiata che tale arma gli garantisce: il potere di deterrenza militare, strategica e politica di queste testate è tale che nessuno ci terrebbe a “far arrabbiare” un paese che con un solo colpo è in grado di cancellare anche il ricordo della tua esistenza. Non è quindi preoccupante che un Presidente USA, e non un qualunque attivista per la pace, la pensi in maniera così naïve?

Ma veniamo all’attualità. Appena qualche giorno fa l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha dichiarato che il mese prossimo si terrà, per la prima volta in circa mezzo secolo, una riunione speciale che avrà all’ordine del giorno una discussione sulla potenzialità nucleare di Israele e sulla sua politica di “ambiguità nucleare”. La novità è dovuta al fatto che Washington ha fatto sapere che non continuerà ad appoggiare il diritto di Israele a non dichiarare le proprie capacità atomiche: secondo il principio di uguaglianza, gli USA non applicheranno alcun trattamento di favore nei confronti di nessuno riguardo al nucleare. Tuttavia le ripercussioni di una scelta del genere sono preoccupanti, non solo per lo Stato Ebraico. Trattando tutti alla stessa maniera, non si traccia alcun tipo di distinzione tra paesi che, nel corso degli anni, hanno dimostrato di essere responsabili nella gestione delle proprie risorse nucleari, e paesi che invece rappresentano una minaccia concreta. Se l’Iran dovesse mai raggiungere la capacità di costruire delle testate, la sicurezza di quest’ultime sarebbe tutt’altro che garantita. In un regime instabile in cui gli attriti interni potrebbero esplodere da un momento all’altro, e in cui non vi è una forte disciplina burocratica, non sarebbe inverosimile pensare che un gruppo di fanatici un giorno possa spingere il bottone e detonare un’atomica, o che peggio ancora che tali armi vengano messe alla mercé di gruppi terroristici. E un evenienza del genere sarebbe sicuramente più probabile in Iran piuttosto che in paesi come il Regno Unito, la Russia, la Francia, o lo stesso Israele.

A quanto sembra, quindi, il genuino sforzo da parte di Barack Obama di rendere il mondo un posto più sicuro potrebbe ottenere risultati diametralmente opposti a quelli auspicati. Il problema è che l’applicazione di principi teoricamente giusti e nobili come il totale disarmo nucleare, il principio di uguaglianza nelle relazioni con altri paesi, e il dare la precedenza alla diplomazia piuttosto che all’uso della forza (non necessariamente militare), si scontrano con realtà concrete estremamente preoccupanti. È giusto ridurre gli arsenali atomici, ma un mondo senza nucleare ormai non esiste nemmeno nelle fiabe; è giusto essere uguali con tutti, ma non bisogna dimenticare che non tutti sono uguali; è giusto tendere la mano all’avversario, ma tendergliela se questo ti punta una pistola in mano è suicida. In altre parole, ciò che vale sul piano teorico non sempre gode di altrettanto successo all’atto pratico. In molti lo danno per scontato. Il problema è che Obama sembra non averlo ancora capito. Peccato solo che potremmo essere noi a pagarne le conseguenze.

[b]Il FOGLIO – " Riflessi lenti sull’atomica iraniana "[/b]

C’è voluto lo smacco subìto lunedì, quando il Brasile di Lula e la Turchia di Erdogan hanno sfilato da sotto il naso all’occidente l’intero dossier Iran, per provocare infine lo scatto dell’Amministrazione Obama. Ieri il segretario di stato, Hillary Clinton, ha detto che c’è l’accordo con Russia e Cina sulle sanzioni dure contro l’Iran e “lasciatemi dire che è la risposta più convincente che potessimo dare a quanto è successo a Teheran nei giorni scorsi”, anche se “apprezziamo gli sforzi sinceri di Brasile e Turchia”. Tradotto: se pensate che dopo esserci fatti prendere in giro perché nel 2009 abbiamo tentato la politica del dialogo e della mano tesa con gli ayatollah, dopo avere intrapreso negoziati limacciosi, dopo avere corteggiato il gelido Putin e l’enigmatico governo di Pechino considerando ogni sorta di scambio geopolitico, dopo avere ricompattato il gregge europeo – più incline a fare affari che a imporre sanzioni – e messo a repentaglio i rapporti con Israele – perché se Washington non riesce a essere efficace contro l’Iran è difficile ottenere l’attenzione di Gerusalemme – ora lasceremo che sia Brasilia a decidere sul nucleare iraniano, sbagliate di grosso. Sanzioni ora. Clinton ha convocato una seduta d’emergenza del Consiglio di sicurezza, e sembrava determinata. Ma per quanto “paralizzanti” saranno le sanzioni, e per quanto si riuscirà a convincere i due gran riottosi, Cina e Russia, l’Amministrazione paga un anno di imperdonabile mancanza d’iniziativa.

[b]Il MANIFESTO – Michele Giorgio : " Gli Usa: Tehran bara, accordo all’Onu per nuove sanzioni"

Michele Giorgio[/b]

Michele Giorgio è l'unico a credere ancora che il programma nucleare non sia un pericolo per l'Occidente. Anzi, secondo lui " Israele, unica potenza regionale a possedere bombe atomiche, ha mantenuto nelle ultime ore una posizione di basso profilo. Tel Aviv appoggia, senza troppa convinzione, la linea americana delle sanzioni ma continua a preparare un attacco aereo contro gli impianti atomici iraniani. ". Ricordiamo all'incolto Giorgio che la capitale di Israele è Gerusalemme, non Tel Aviv.
Non è ben chiaro in base a quali elementi possa scrivere che Israele sta preparando un attacco aereo contro gli impianti atomici iraniani. Se anche fosse, comunque, sarebbe solo un fatto positivo. Visti i tempi della diplomazia di Obama, prima si interviene per bloccare il programma atomico degli ayatollah, meglio è. Giorgio sostiene anche che Israele sia l'unica potenza della zona a possedere delle atomiche. Ammesso e non concesso che sia così, Israele non minaccia nessuno con il suo fantomatico arsenale nucleare. Il nucleare iraniano, invece, pur (forse) non esistendo ancora, è una minaccia per tutti.
Non c'è molto da stupirsi del taglio dell'articolo di Michele Giorgio. Ciò che conta per lui e il quotidiano per cui scrive non è diffondere notizie, ma fare propaganda anti israeliana.
Ecco l'articolo:

Ci credono il premier turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente brasiliano Luis Ignacio Lula da Silva. Ieri hanno ribadito l’importanza dell’intesa raggiunta due giorni fa con Tehran, grazie a cui l’Iran accetta lo scambio in Turchia di 1.200 chili di uranio poco arricchito contro 120 chili di combustibile arricchito al 20%, fornito dalle grandi potenze, destinato al funzionamento dei suoi reattori di ricerca nucleare. Erdogan, a margine al vertice euro- latinoamericano di Madrid, al quale ha preso parte anche Lula, ha lanciato un appello alla Comunità internazionale perché sostenga gli sforzi di Turchia e Brasile che, peraltro, chiedono di entrare a fare parte del gruppo «5+1», i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) più la Germania che negozia sul dossier nucleare iraniano. «Abbiamo dimostrato che con la diplomazia l’Iran può sedersi attorno a un tavolo e negoziare» ha detto il primo ministro turco, invitando l’Occidente ad abbandonare la strada delle sanzioni. Da Washington invece sono arrivati segnali contrari. Nelle ore in cui Erdogan chiedeva sostegno all’iniziativa turco-brasiliana, la segretaria di stato Hillary Clinton annunciava che è pronta la bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza per una nuova tornata di sanzioni contro l’Iran – il documento, negoziato a lungo nei mesi scorsi, è stato presentato formalmente ieri al Consiglio di sicurezza, che si è riunito in serata. Sostenendo che Tehran sta attuando una «manovra diversiva» per sottrarsi alle pressioni internazionali per il suo programma nucleare, Clinton ha sottolineato che la bozza di sanzioni è stata raggiunta «con la cooperazione di Russia e Cina». I due paesi che più si erano opposti alla linea dura contro l’Iran adesso appoggerebbero la posizione degli Stati Uniti. Da parte sua Israele, unica potenza regionale a possedere bombe atomiche, ha mantenuto nelle ultime ore una posizione di basso profilo. Tel Aviv appoggia, senza troppa convinzione, la linea americana delle sanzioni ma continua a preparare un attacco aereo contro gli impianti atomici iraniani. Ieri il premierNetanyahu e i sette ministri israeliani del «gabinetto informale» per le questioni di difesa e politica estera sono rimasti riuniti per ore a discutere dell’intesa Iran-Turchia-Brasile. In Israele i media sono convinti che l’ accordo sia un successo diplomatico per l’ Iran, perché potrebbe allontanare laminaccia di sanzioni e fermare l’«opzionemilitare » che Tel Aviv tiene nel cassetto. E l’Iran in effetti si attende una risposta rapida e positiva da parte del Gruppo di Vienna – Russia, Usa, Francia e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) – all’accordo trovato due giorni fa. Per Tehran sarà importante anche la posizione che adotterà l’Unione europea. Il presidente francese Nicolas Sarkozy ieri ha definito un «passo positivo» l’accordo siglato dall’Iran con Turchia e Brasile; ha annunciato che la Francia lo esaminerà «insieme al gruppo dei 6» e che il suo paese «è pronto a discutere senza preconcetti e da ogni angolatura l’intera questione iraniana ». Parigi però già prevede un «aggiornamento » dell’intesa appena conclusa con la mediazione di Erdogan e Lula. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, infine ha affermato che l’accordo sullo scambio nucleare potrebbe essere «un passo positivo» se sarà seguito da misure concrete.

[b]La STAMPA – Fulvia Caprara : " Kiarostami & Binoche. Lui si 'pente', lei piange"[/b]

Cannes, Festival del Cinema:
La notizia dello sciopero della fame di Jafar Panahi, recluso ad Evin per aver appoggiato i manifestanti anti regime, è su tutti quotidiani italiani.
Incredibile la titolazione di REPUBBLICA : " Panahi fa lo sciopero della fame, commozione per Teheran al festival ". La commozione non è per l'Iran, nè per Teheran, ma per il regista iraniano che si sta lasciando morire di fame per protesta contro il regime che l'ha incarcerato.
Ecco l'articolo di Fulvia Caprara:

[b]Jafar Panahi[/b]

Abbas Kiarostami sperava in una bella notizia. Una telefonata dall’Iran, ieri mattina, poco prima della presentazione al Festival di Copia conforme, lo aveva illuso per un attimo: «Sognavo di sentirmi dire che Jafar Panahi era stato liberato. Sarebbe stato uno stupendo regalo per me e per tutti quelli che amano la libertà». E invece la novità è che Panahi, in carcere a Teheran, ha iniziato lo sciopero della fame.
Lo choc scuote la platea della kermesse, riempie di lacrime gli occhi di Juliette Binoche, commuove una giornalista iraniana che resta lì, microfono in mano, la gola stretta dal pianto, incapace di porre la sua domanda. Non si può fare finta di niente. Prima di raccontare cosa c’è dietro Copia conforme, Kiarostami vuole parlare del suo Paese: «Sono profondamente rattristato. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte a quello che sta accadendo in Iran. È assolutamente intollerabile che un cineasta venga messo in carcere, significa imprigionare l’arte. Panahi stava preparando il nuovo film, è stato accusato di un crimine che non ha ancora commesso». Da lungo tempo, prosegue l’autore, «il governo iraniano cerca ogni modo per mettere i bastoni fra le ruote a me e ad altri cineasti, la libertà d’espressione non è tollerata. Il risultato, per tutti quelli che sono obbligati a vivere lì, è di non poter fare quello che vogliono». Ma non bisogna cedere né disperarsi: «La mobilitazione di tutto il mondo merita rispetto».
L’uscita del regista è anche la necessaria risposta alle polemiche che da giorni rimbalzano sui giornali francesi. Si è parlato del «silenzio politico» dell’autore e Binoche, protagonista del suo film, aveva ricevuto nei giorni scorsi una lettera dall’associazione dei registi iraniani esuli: «Si rende conto – chiedevano gli autori nella missiva riportata da Libération il giorno dell’inaugurazione del Festival – che nel momento in cui lei sostiene in lavoro di un autore come Kiarostami, tra i più conoscuti all’estero, tende la mano, con un pretesto estetico, al regime criminale che domina il nostro Paese?».
Nel mirino delle critiche anche le formule produttive che permettono a Kiarostami di continuare a lavorare e di essere ospite delle rassegne internazionali: «I suoi film sono prodotti da società “soi-disant” italiane, francesi, belghe, ma sotto sotto conservano il cattivo odore della repubblica islamica».
Tutto questo mentre sul palcoscenico la sedia del giurato Panahi restava vuota. Kiarostami non poteva non rispondere e ieri, alla fine della conferenza stampa, è stato anche diffuso il testo della lettera aperta scritta dal regista a marzo: «Convinto che un desiderio devoto non possa essere vano, esprimo la mia speranza di non vedere mai più su questa terra un artista in prigione a causa della sua arte né giovani autori indipendenti discriminati». Quando gli chiedono se ha paura per se stesso, l’autore risponde di no, ma «certo queste cose non si possono decidere. L’arresto di Panahi dimostra che i limiti ormai sono stati superati e, in Iran, in questo momento, non è possibile fare previsioni».
A suscitare commenti perplessi anche il fatto che l’autore abbia scelto di mettere al centro della nuova opera la storia di un uomo e di una donna. Insomma, niente che abbia a che vedere con l’attualità, proprio nel momento in cui il cinema di tutto il mondo riacquista il valore della denuncia: «Possiamo far parte della società senza scegliere per forza una dimensione politica – risponde Kiarostami – ma il sociale è dovunque, così come la politica, quindi anche in questo film». Al suo fianco, Binoche finalmente sorride. Si è perfino detto che la sua presenza sul manifesto del Festival («Invasion Binoche», ha scritto qualcuno) fosse poco opportuna perché la star è in gara per i premi ed essere sempre sotto gli occhi di tutti significa disporre di una carta in più rispetto alle colleghe.
«Prima di iniziare a girare ho riguardato i film di Anna Magnani, che è la mia attrice preferita – replica lei -. Ho cercato di rifarmi a lei, interpretando questa donna misteriosa che, nella sua vulnerablità e nella sua forza, esprime le infinte sfaccettature del carattere femminile».

 

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