Dopo i kamikaze, un faro di speranza
[b]Darsi la mano a Jenin
Aldo Baquis
Un discepolo di Rabin e uno di Arafat. Per costruire insieme la pace. Così Jenin, dopo i kamikaze, diventa un faro di speranza.[/b]
La statua di un cavallo rampante prodotto saldando le parti di carrozzeria di automobili distrutte durante la rivolta, in bella mostra in una piazza del centro: così la città cisgiordana di Jenin – un tempo considerata la “capitale dei kamikaze†palestinesi – rende omaggio alla intifada. Ritenuta luogo di disperazione, Jenin è divenuta col tempo un faro di speranza. Nelle sue strade pattuglie della polizia palestinese mantengono l’ordine, il crimine è stato azzerato e responsabili locali dell’Anp stanno lavorando a progetti che in un prossimo futuro – in una zona afflitta da alti tassi di disoccupazione – potrebbero dare lavoro a 15 mila operai.
Dietro a questi sviluppi, che non hanno eguale in altre zone della Cisgiordania, ci sono due uomini che in passato hanno combattuto per i rispettivi popoli e che adesso cercano di costruire una cooperazione sui due versanti della Barriera di sicurezza. A Jenin il motore pulsante della operazione è il governatore Qadoura Mussa, membro del Consiglio rivoluzionario di al-Fatah. Ha alle spalle 12 anni di reclusione nelle carceri israeliane. “Gli israeliani chiedevano che a Jenin tornasse la stabilità . Lo abbiamo fatto. Adesso è giunto il momento di costruire il futuro’’. Era il 2005 quando in questo ufficio il telefono squillò. Dall’altro capo della linea c’era Dani Atar, responsabile del Consiglio regionale di Gilboa, la zona israeliana che confina con la provincia di Jenin. Ex comandante militare, Atar è entrato nella politica negli anni Novanta per sostenere Yitzhak Rabin alla guida del partito laburista. Come Rabin, Atar ritiene che i presupposti della pace con i palestinesi vadano gettati in casa, più precisamente con gli arabi-israeliani. Per anni ha provveduto ad elevare i servizi per la popolazione araba nella sua Regione, con gli aiuti degli insediamenti agricoli ebraici.
“Gli arabi-israeliani possono e devono essere un ponte di pace fra Israele e i palestinesi’’, conferma il suo vice, Eid Salim. Nel moderno ufficio del Consiglio regionale di Gilboa, in una zona verdeggiante di prosperosi kibbutzim, mi vengono illustrati i progetti definiti in questi anni dal volitivo tandem Mussa-Atar, col sostegno entusiasta del ministro spagnolo degli esteri Miguel Angel Moratinos e di Tony Blair, l’emissario del Quartetto. ‘’Da quando abbiamo eretto la Barriera di sicurezza, la violenza è stata eliminata e possiamo progettare il futuro’’, spiega Atar.
Nei pochi chilometri compresi fra Jenin e la Barriera dovrebbe sorgere una vasta area industriale. I prodotti passeranno poi in territorio israeliano: quando sarà pronta la ferrovia, le merci arriveranno in 45 minuti al porto di Haifa o in un tempo analogo al Ponte Sheikh Hussein, porta di ingresso per la Giordania.
Da alcuni mesi il valico di Gilboa è inoltre aperto alla popolazione araba-israeliana che compie adesso i suoi acquisti a Jenin: le vendite sono subito cresciute, la disoccupazione è calata, un cauto ottimismo ha cominciato a mettere radici. Il turismo potrebbe rafforzare le loro iniziative: Gilboa e Jenin propongono pacchetti turistici comuni per chi (studenti, sindacalisti, religiosi) voglia studiare l’edificazione della pace. Jenin, la città che forse ha più sofferto per la intifada, ha una gran voglia di normalità . Alla periferia si sta completando uno stadio di calcio e su una collina vicina si staglia un moderno villaggio turistico circondato da uliveti, dotato di un albergo, di parchi giochi, di un museo di cultura palestinese e di un teatro da 2000 posti.
“Sarebbe il posto migliore per firmare il trattato di pace fra Palestina ed Israeleâ€, sogna ad occhi aperti il proprietario.
[b]Aldo Baquis[/b]
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