La storia di Robert Fano, padre di internet
[b]Da ebreo torinese perseguitato dalle leggi razziali a professore al MIT
Testata: La Stampa
Data: 23 aprile 2010
Pagina: 33
Autore: Gianna Pontecorboli
Titolo: «Il padre di internet in fuga da Mussolini»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/04/2010, a pag. 36, l'articolo di Gianna Pontecorboli dal titolo " Il padre di internet in fuga da Mussolini ".[/b]
Robert Fano
L’anno è, molto probabilmente, il 1964. Ne mancano ancora venti alla nascita dei pc. Le immagini che ci arrivano da un vecchio video sono in bianco e nero: «Quello che vogliamo – spiega in un inglese ancora venato d’accento piemontese un giovane professore – è arrivare a mettere il potere del computer a disposizione degli individui. Vorremmo rendere la sua enorme forza logica e di calcolo accessibile al pubblico, metterlo in condizione di lavorare da una scrivania e soprattutto con un linguaggio accessibile a tutti». Adesso, a quasi cinquant’anni da quella visione che ci appare come una profezia, il protagonista del video, Robert Fano, ha ancora voglia di raccontare la lunga vicenda che lo ha portato a diventare uno dei leggendari padri del mondo di Internet. Fano, a 93 anni, è ancora professore emerito di Computer Science al prestigioso Massachusetts Institute of Technology.
La svolta della sua vita ha luogo nel 1938, quando Mussolini decide che l’insegnamento nelle scuole italiane deve essere depurato da ogni influenza ebraica. Fino a quel momento, il giovane Roberto è stato un ragazzo privilegiato, cresciuto in una famiglia unita, affettuosa e più che benestante. Il padre Gino è un rispettato professore di geometria all’Università di Torino, il fratello Ugo è un fisico brillante che già collabora con Enrico Fermi nel gruppo di Via Panisperna. Roberto è iscritto al quarto anno di ingegneria. Le leggi razziali interrompono bruscamente la sua esistenza dorata. Il padre, a cui Mussolini per tre volte ha rifiutato l’ingresso all’Accademia dei Lincei, è senza lavoro, tuttavia non vorrebbe spingersi lontano dall’Italia. Accetta però di trasferirsi in Svizzera, Ugo invece segue la moglie Lilla in Argentina, in attesa di un visto per gli Stati Uniti. Roberto resta a Torino e si incarica di trasferire all’estero qualche soldo, finché non ottiene anche lui un prezioso visto dal console americano di Zurigo.
Fano, oggi, non ha rimpianti. La sua vicenda è simile a quella degli altri circa duemila ebrei italiani che avevano le risorse e la possibilità di fuggire dalla persecuzione razziale. Tra loro alcuni nomi destinati a diventare famosi, come quelli di Salvador Luria, Emilio Segré e Franco Modigliani (poi premiati con il Nobel) e tanti altri destinati a rimanere sconosciuti. Per tutti loro l’incontro con il nuovo mondo è stato faticoso e qualche volta sorpendente. «In Italia – ricorda Fano – andavo bene all’Università , ma non ero certo uno studente brillante. Qui, ho dovuto costruirmi da solo».
Appena giunto negli Stati Uniti, lo studente torinese pensa soprattutto a finire gli studi e non ha la presunzione di puntare troppo in alto, ma la cognata lo convince a presentare una domanda al Massachusetts Institute of Technology. A sorpresa il prestigioso Mit non soltanto lo accetta, ma gli abbuona gli esami sostenuti in patria. «Ho ricevuto un’educazione italiana e questa mi ha aiutato molto, quando sono arrivato al Mit ho scoperto che molte delle materie che i miei coetanei non avevano ancora seguito, io le avevo già affrontate al liceo e mi hanno dato il credito. E la matematica che avevo imparato a Torino da Guido Fubini, un grande matematico collega di mio padre, era in definitiva migliore di quella che si insegnava qui». Ma in America l’ambiente è apparso subito al giovane torinese più aperto e più accogliente.
«Gli insegnanti mi hanno subito manifestato una certa ammirazione mentre in Italia il rapporto con i docenti era spesso difficile, a chiedere consigli si ricevevano risposte seccate. Qui invece i professori erano, e sono, molto più disponibili e il sistema è più efficiente. Anni fa ho avuto uno studente italiano, Valentino Castellani. Mi faceva molte domande, io ho usato con lui la stessa gentilezza che cerco di avere con tutti. Ne è rimasto talmente impressionato che quando è diventato sindaco di Torino mi ha proposto per la laurea Honoris Causa al Politecnico». Quando l’America entra in guerra e i professori americani cominciano a lasciare vuote la cattedre per rispondere alla chiamata alle armi, il giovane Robert si ritrova ad essere contemporaneamente studente (per il master) e docente alla graduate school, cioè agli studenti del suo stesso livello. A sentirla raccontare adesso, dalla sua voce pacata, la lunga strada compiuta da Robert Fano assomiglia a un percorso facile, quasi comodo. «Dopo la guerra – ricorda -, ho fatto un dottorato di ricerca sulla teoria dell’informazione e sono rimasto come insegnante fino al 1961. In realtà volevo entrare nel settore dei calcolatori. Così, non appena si è presentata l’occasione di avere un grosso laboratorio di ricerca e nessuno che avesse l’età o la voglia di occuparsene, l’ho fatto io».
In realtà , il programma in cui entra e che prende il nome di «Progetto Mac» è enorme e coinvolge sia il Pentagono sia le grandi aziende che per prime si stanno impegnando nel settore. Per la prima volta, si sperimenta il «time-sharing». E Fano si ritrova a fare contemporaneamente lo scienziato e l’amministratore. «Al laboratorio, che adesso si chiama Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory, abbiamo fatto il primo passo in direzione di Internet», racconta ora, quasi con l’aria di schermirsi. Quando, alla fine del 1968, Fano abbandona la direzione del progetto, il suo nome non ha più bisogno di presentazioni. Nel corso degli anni, onori e riconoscimenti non gli sono mancati. Oggi è membro delle più importanti accademie della scienza e della tecnica americane. Nel 1976, ha ricevuto il premio Shannon per il suo lavoro sulla teoria dell’informazione. Genova lo ha premiato durante le celebrazioni colombiane, nel 1992.
La sua vita personale è stata simile a quella di tanti altri intellettuali americani di successo, un solido matrimonio con Jacqueline, d’origine francese, tre figli, una casa per le vacanze non lontana quella dei Kennedy a Cape Cod, una barca di cui va fiero. Al visitatore, mostra con orgoglio il bel libro che sua figlia ha fatto stampare per celebrare i suoi «novant’anni ben vissuti». Non ha rinunciato alla sua eredità religiosa e culturale, dice di essere rimasto quello che era pur avendo contribuito alla fondazione del «villaggio globale»: «Quando sono arrivato in questo Paese gli agenti del servizio immigrazione mi hanno chiesto di che razza ero, allora l’ebraismo era considerato una razza, le persone venivano separate, c’erano medici ebrei e medici non ebrei, avvocati ebrei e non ebrei. A quell’agente ho risposto: guardi che io ho lasciato l’Italia proprio per sfuggire a tutto questo… Volevo entrare al più presto nella cultura americana, volevo evitare ad ogni costo la mentalità del ghetto». Nemmeno il sionismo lo ha mai convinto e in Israele non ha mai voluto andare: «Quando mia nipote ha sposato un ragazzo che è cresciuto in Libano, in casa lo hanno salutato come il secondo palestinese di famiglia»…
Nei confronti dell’Italia ha un atteggiamento affettuoso, ma non rinuncia alla critica: «Non mi sono certo dimenticato di essere italiano e mi piace molto tornarci in vacanza. È la burocrazia italiana che mi fa diventare matto: è un Paese dove ogni cosa dipende da chi conosci. In America ho avuto successo, mio fratello pure. Ma credo che ci sarebbe successo anche in Italia perché abbiamo studiato ed eravamo preparati».
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