Netanyahu da Obama, gelo tra alleati
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[b]di Fiamma Nirenstein[/b]
Resteranno delusi sia quelli che avrebbero voluto vedere un incontro di pugilato fra il presidente Obama e Benjamin Netanyahu, sia quelli che avrebbero desiderato assistere a un abbraccio durante l’incontro di ieri notte. Alla fine delle giornate del congresso dell’Aipac, la maggiore fra le associazioni americane filoisraeliane, l’incontro fra i due leader rimarca amore e odio: un disaccordo che pure non può permettersi di distruggere un rapporto strategico fuori discussione. Israele e gli Stati Uniti, come ha esordito Netanyahu nel suo discorso, hanno davvero molto in comune e questo nemmeno l’infastidito Obama può ignorarlo.
Sono davvero due Paesi di frontiera in senso morale e fisico, anche se le loro dimensioni sono tanto diverse, in cui la realtà storica e l’immaginario collettivo disegnano sempre un John Wayne o un Moshè Dayan campioni di libertà e di democrazia in un mondo turbato da ideologie violente, autocratiche, terroristiche. Essi sono davvero due Paesi fratelli perché credono in Dio senza essere clericali. E ancor più forse, Obama ha certo visto le statistiche per cui dieci americani contro uno ritengono che gli Usa debbano sostenere Israele.
D’altra parte resta vero che Obama, avendo scelto una strada che tende decisamente a ricostruire i rapporti col mondo arabo anche a caro prezzo, sa che la cosa più dannosa ideologicamente per «la mano tesa» è l’«indistruttibile» rapporto degli Usa con Israele. E ha dovuto usare proprio questa espressione a Fox News per recuperare rispetto al profondo scontro dei giorni precedenti e così l’ha ripetuta Hillary Clinton all’Aipac, aggiungendovi rock solid, duro come una roccia.
Così, nelle ore precedenti all’incontro della Casa Bianca avvenuto nelle nostre ore notturne, dopo il dialogo pubblico di Clinton e Netanyahu, ha cercato di farsi sentire sui media il mondo arabo, e in particolare i palestinesi, molto scontenti. Si prepara al summit della Lega Araba di Tripoli questo sabato, destinato come tutti gli altri a trasformarsi nelle solite minacce e condanne a Israele, ma anche a garantire ad Abu Mazen il nullaosta per le trattative per interposta persona che Obama richiede. Si sa che Abu Mazen, come del resto Netanyahu, non potrà negare al presidente americano, specie ora che è così forte dopo il voto congressuale, il passo che richiede da tempo, la riapertura dei negoziati. Ma Abu Mazen vuol far capire che dopo questa sessione di incontri israelo-americani, ci andrà deluso della remissività americana. Abu Mazen sa però due cose: la prima che gli Usa non hanno spento né spegneranno il fuoco sotto gli insediamenti del West bank e che cercheranno di ottenere il blocco anche di Gerusalemme. La seconda, che Bibi, mentre tiene ferma e precisa la posizione sulle costruzioni di Gerusalemme, si impegnerà a Washington per una quantità di altre concessioni, sia di libertà di movimento, che economiche, che relative alle costruzioni negli insediamenti, che di rilascio di prigionieri. E al tavolo delle trattative, anche se non prima, non potrà evitare la pressione degli americani a parlare anche di Gerusalemme.
C’è un altro aspetto che spingerà Abu Mazen a riprendere le trattative: la Clinton ha fatto una quantità di affermazioni amichevoli applaudite dalla platea dell’Aipac, ma non ha rinunciato a far sentire a Israele in maniera inconsueta come usa fare questa amministrazione, una tonnellata di pressione verso concessioni territoriali preventive tramite il
freezing degli insediamenti. Più volte Clinton ha ribadito che lo status quo va superato e a incitato impaziente a compiere passi coraggiosi: vibrava nelle sue parole una palese mancanza di fiducia verso il governo israeliano.
Netanyahu a sua volta ha ripetuto, sì, la sua sincera fedeltà al rapporto con gli Usa e ha centrato il discorso sull’Iran piuttosto che sui palestinesi, ma ha tenuto botta. Non solo ha ripetuto che Gerusalemme non è un insediamento, ma la capitale d’Israele. Ma più tardi, dopo l’incontro con Biden e con il suo entourage congressuale ha avvisato che se i palestinesi insisteranno su atteggiamenti irrazionali, ovvero su un totale freezing delle costruzioni nei quartieri arabi di Gerusalemme, la prefigurazione di una divisione territoriale mai trattata e mai garantita, questo potrebbe ritardare le trattative perfino di un anno. E questo Obama non lo vuole: le due parti si devono sedere, gli serve a dimostrare che la sua politica estera dà qualche segno di vita. Insomma, a Washington tutti si preparano a giocare una partita a scacchi sulla bocca di un vulcano.
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