[b]Commenti di Fiamma Nirenstein, Antonio Ferrari. Interviste a Daniel Pipes di Maurizio Molinari, ad Avi Pazner di Francesco Battistini, a Saeb Erekat di Udg.[/b]

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Testata:Il Giornale – La Stampa – Corriere della Sera – L'Unità
Autore: Fiamma Nirenstein – Antonio Ferrari – La redazione del Giornale – Maurizio Molinari – Francesco Battistini – Umberto De Giovannangeli
Titolo: «'Silvio, amico sincero': un bene raro per Israele – Berlusconi in Israele: le ragioni del viaggio – Berlusconi in visita a Gerusalemme: Stop insediamenti, ostacolo alla pace – Perchè Bibi non crede nella carta dei due Stati – Ma Silvio è un nostro grand»

La maggior parte del giornali titolano oggi, molti in prima pagina, con le dichiarazioni che Berlusconi ha rilasciato in una intervista ieri con il quotidiano israeliano Haaretz, evidenziando il problema "colonie". Si tratta di una estrapolazione legittima, fra tutte le risposte che Berlusconi ha dato, questa era indubbiamente la meno attesa, quindi la più invitante, visti i rapporti di profonda e leale amicizia tra il Presidente del Consiglio e Israele.

Non che cambi qualcosa, sono troppe le identità di vedute perchè un'opinione possa pesare sui colloqui di questi giorni, ma una osservazione si impone sulla scelta di Haaretz fra altri giornali israeliani. Haaretz è la versione israeliana di Repubblica, o viceversa, era ovvio aspettarsi qualche domanda tesa a mettere in difficoltà l'immagine di un Berlusconi grande amico, che nei giorni scorsi era prevalente sui media israeliani. Infatti…
C'è da chiedersi chi abbia suggerito a Berlusconi di concedere a quella testata l'intervista che sarebbe stato logico aspettarsi su un'altro giornale.

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 01/02/2010, a pag. 3, il commento di Fiamma Nirenstein dal titolo " 'Silvio, amico sincero': un bene raro per Israele ", a pag. 2, il testo dell'intervista rilasciata da Silvio Berlusconi ad Haaretz dal titolo " Berlusconi in visita a Gerusalemme: Stop insediamenti, ostacolo alla pace". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-8, il commento di Antonio Ferrari dal titolo " Berlusconi in Israele: le ragioni del viaggio ", a pag. 14, l'intervista di Francesco Battistini ad Avi Pazner dal titolo "Ma Silvio è un nostro grande amico. E con Teheran l’Italia farà la sua parte ". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'intervista di Maurizio Molinari a Daniel Pipes dal titolo " Perchè Bibi non crede nella carta dei due Stati ". Dall'UNITA', a pag. 19, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Saeb Erekat dal titolo " Senza pressioni internazionali Israele non cambierà linea"preceduta dal nostro commento.

Ecco gli articoli:

Il GIORNALE – Fiamma Nirenstein : " 'Silvio, amico sincero': un bene raro per Israele "

Fiamma Nirenstein

Un amico… haver tov, un buon amico. Già dalla giornata precedente all’arrivo di Silvio Berlusconi in Israele tutti i media cartacei, radiofonici, televisivi erano pieni di questa espressione. Per Israele gli amici sinceri sono importanti quanto rari, specialmente quando arrivano dall’Europa. Israele è abituata a vedere il mondo gestire con le pinze la sua situazione, sa che avere un rapporto caldo e gentile come quello di Berlusconi con lo Stato ebraico e con Bibi Netanyahu è una scelta costosa, che il mondo islamico guarda e aggrotta le sopracciglia. Israele è spesso calunniata e rimproverata mentre la premono mille minacce esistenziali, e il fatto che qualcuno capisca quanto è duro difendere l’unica democrazia del Medio Oriente le dona un attimo di respiro, una autentica consolazione.

Il panorama che Berlusconi vedrà sarà quello di una società piena di voglia di vivere, di un’economia che si basa sull’innovazione tecnologica. Netanyahu, che ci tiene molto a dare un suo segno fortemente liberale, ha creato l’ambiente perché l’indice delle cento compagnie israeliane più forti nello stock Exchange di Tel Aviv siano cresciute dell’88,8% in un anno, riprendendosi velocemente dalla crisi del 2008. Lo standard medio della vita è simile a quello italiano. Sembra incredibile che sia una società minacciata di genocidio, affaticata dalle spese militari, in cui la leva militare è di tre anni, e in cui il pericolo è pane quotidiano. L’Iran è oggi il centro dell’attenzione strategica, un pericolo chiaro e presente: Israele lo vede appollaiato sui suoi confini, sempre più aggressivo. Al nord Hezbollah, parte importante del governo libanese, milizia sciita integralista armata dagli ayatollah lungo il confine israeliano, è pronto a scattare quando l’Iran lo ordini.

E a Gaza, a sud d’Israele, Hamas che ha giurato di distruggere Israele, è definita anche da Abu Mazen una pedina iraniana. La Siria, nella cui capitale risiedono le ambasciate più attive di svariati gruppi terroristi, è un attore così importante in tutta la vicenda che il ministro della difesa Ehud Barak è stato costretto a dire che se di nuovo dovesse scoppiare un conflitto con il Libano a causa di un’aggressione degli Hezbollah, probabilmente esso si allargherebbe alla Siria. Ha anche aggiunto che Israele spera che questo non succeda, ma questa è l’aria che tira dopo che il giornale del Qatar Al Watan ha rivelato una svolta strategica decisiva da parte di Damasco verso gli Hezbollah, che in questi giorni hanno dispiegato i missili terra-terra M600 di fabbricazione siriana, che raggiungono i 250 chilometri i distanza; insomma, Tel Aviv.

Israele certo spiegherà a Berlusconi che la sua preoccupazione è che l’Iran si serva dei suoi amici per dare fuoco al Medio Oriente. Questo naturalmente distruggerebbe qualsiasi opzione di pace con i palestinesi del West Bank: e Abu Mazen, forse sperando che il consesso internazionale faccia la maggior parte del lavoro, sta un passo indietro rispetto a trattative di pace (richieste invece da Netanyahu) cui pone precondizioni che Israele non accetta. I palestinesi vorrebbero un completo congelamento di tutte le costruzioni negli insediamenti: ma Netanyahu, che pure ha ordinato il maggiore «stop» dal 1967, non vuole andare troppo lontano senza contropartite almeno morali.

Sanguina il risultato ottenuto da Sharon con lo sgombero di Gaza, solo missili sulle città israeliane e il potere a Hamas. Abu Mazen a sua volta teme di essere abbandonato da un’opinione pubblica abituata giorno per giorno alla propaganda ufficiale di esaltazione degli «shahid» – i terroristi suicidi – diffusa anche da Fatah. Hamas gli contende da vicino il consenso sul versante della guerra a Israele.
Un altro tema che angoscia Israele e di cui è probabile che dati i suoi rapporti con la Turchia Berlusconi sentirà parlare, è il drammatico raffreddamento di rapporti con il governo turco guidato da Tayyp Erdogan, dato che per tanti anni il Paese di Kemal Ataturk è stato il miglior nesso fra mondo islamico e Israele e oggi ne provengono attacchi continui.

Insomma, farà caldo in Israele. Gli americani in questi giorni dispiegano navi al largo della costa iraniana e piazzano sistemi antimissile almeno in quattro Paesi arabi moderati: un segnale che Obama non crede più di poter contenere la follia di Ahmadinejad con la politica della mano tesa. Lo temono infatti anche i Paesi arabi moderati ed è per questo che gli Usa schierano i sistemi antimissile. La situazione che Berlusconi incontrerà in questi giorni è infuocata e sassosa più di sempre in Medio Oriente. E dunque Israele lo aspetta, perché quando sei in pericolo, è bello raccontarlo ad un amico.
www.fiammanirenstein.com

CORRIERE della SERA – Antonio Ferrari : " Berlusconi in Israele: le ragioni del viaggio "

Antonio Ferrari

E’difficile comprendere come questa improvvisa missione sia stata preparata e quali concreti obiettivi si prefigga. Ma non c'è dubbio che il viaggio del presidente del Consiglio Berlusconi in Israele, che comincia oggi e durerà tre giorni, sia importante, e non soltanto perché il capo del governo ha deciso di farsi accompagnare da 8 ministri. E' importante soprattutto per tre ragioni: perché interrompe una fase di paralisi totale del processo negoziale che dovrebbe portare la pace nel Medio Oriente. Perché si coniuga con la tessitura diplomatica della cancelliera tedesca Angela Merkel, rivelando l’esistenza di un asse europeo che intende essere propositivo, e non a rimorchio dell’endemico immobilismo della Ue nella regione. Infine perché riempie, almeno con l’ottimismo della volontà, una parte del vuoto che sta lasciando la diplomazia americana, incapace di trasferire nella realtà le generose ambizioni del presidente Barack Obama, diffuse con l’accorato discorso del Cairo, all’esordio internazionale della nuova Amministrazione. Obama aveva promesso di impegnarsi per affrontare tutti i problemi dell’area, evitando la scorciatoia finora sterile dei tavoli separati. Ma in realtà ha fatto poco o niente. Proprio l’altro ieri, nella sua settimanale newsletter, lo scrittore israeliano di sinistra Uri Avnery, che ogni venerdì affida un pensiero alle colonne di Haaretz, ha paragonato l’inviato del presidente-Usa nella regione, George Mitchell, ad un canguro che salta da una capitale all’altra con in mano una borsa vuota, perché non c’è niente da offrire. «Non abbiamo bisogno di Amleto, ma di un Giulio Cesare», scrive Avnery, con una punta di sarcasmo, nella sua conclusione. È evidente che un Giulio Cesare non esiste, né da questa parte né dall’altra dell’Atlantico, ma è altrettanto evidente che non si può compensare la mancanza di una vera e incisiva strategia con il semplice e monotono invito alle parti a tornare al tavolo dei negoziati. Il Medio Oriente ha imparato da tempo che non esistono soluzioni miracolose, però non bisogna rinunciare in partenza agli sforzi per ottenere almeno qualche importante risultato. Tony Blair, inviato del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) con il compito di realizzare l’ambiziosa Road map per giungere alla pace, ha affittato un piano dell’hotel American Colony, a Gerusalemme, ma dopo anni di lavoro non ha ancora ottenuto nulla. Tutto è fermo e congelato. I palestinesi laici di Ramallah, guidati da Abu Mazen, sono sempre in aperto conflitto con i fondamentalisti di Hamas, che vivono a Gaza: le elezioni presidenziali e politiche, che dovevano tenersi a gennaio, sono state rinviate. E il governo israeliano è come prigioniero di un centrocampo attendista con poche ambizioni, se non quella di guadagnare tempo. Ecco perché, contro l’immobilismo, c’è chi ha deciso di muoversi. Berlusconi, con calcolata scaltrezza e con indubbio tempismo, ha deciso di compiere la delicata missione, e si è fatto precedere da un’intervista, affidata al quotidiano simbolo dei liberal israeliani, appunto Haaretz, quindi il giornale più a sinistra della stampa del Paese. Il premier ha lanciato, da amico di Israele, «con la mano sul cuore», alcuni messaggi assai importanti: che la politica degli insediamenti e della loro espansione nuoce alla pace; che è necessario sostenere il dialogo tra Siria e Israele per giungere a un accordo che preveda la restituzione a Damasco delle alture del Golan; e che non si può accettare che un Paese vicino (l’Iran) si doti dell’arma nucleare, dopo le continue minacce all’esistenza dello Stato ebraico e le reiterate dichiarazioni negazioniste sull’Olocausto. Era prevedibile l’elogio del primo ministro Benjamin Netaniahu, che ritiene giustamente la Merkel e Berlusconi grandi amici di Israele. Ma non può essere sfuggito a Bibi il peso politico delle impegnative dichiarazioni del capo del governo italiano. Molti hanno sempre lamentato l’assenza dell’Europa. Tuttavia, se l’Europa (o parte di essa) si muove, con franchezza e costruttivamente, anche per la politica ondivaga dell’esecutivo di Gerusalemme si tratta di un chiaro segnale che non può essere ignorato.

Il GIORNALE – " Berlusconi in visita a Gerusalemme: Stop insediamenti, ostacolo alla pace "

Haaretz

Silvio Berlusconi è considerato l’alleato numero uno di Israele in Europa. Le fondamenta su cui si basa questa amicizia.
«Tutta la mia vita, prima come imprenditore, poi come presidente del Consiglio, è stata improntata all’amore per la libertà. Il popolo ebraico ha creato in Medio Oriente, con coraggio e perseveranza, uno Stato che è un monumento alla democrazia. Israele è un pezzo di Europa. Appartiene all’Occidente, crede nei valori di democrazia nei quali crediamo anche noi. Per questo sono sempre stato vicino a Israele, per questo da capo del governo ho cambiato la politica estera italiana, trasformando l’Italia nel migliore amico di Israele in Europa. Al tempo stesso, ho coltivato i rapporti con i leader moderati del mondo arabo e musulmano. L’Italia è oggi una tappa obbligata, spesso la prima, delle visite in Europa dei leader mediorientali. Ci sentiamo coinvolti nella ricerca di una soluzione duratura e globale della questione palestinese. L’Italia ha offerto la bella città di Erice come possibile sede dei futuri colloqui di pace».

In una recente intervista ad Haaretz, Tony Blair ha dichiarato che esiste un fronte unico del terrorismo internazionale che va dall’Iran all’Afghanistan, dal Pakistan alla Somalia fino allo Yemen. La percezione della minaccia terroristica e i possibili rimedi, oggi.
«Ha ragione Blair. C’è un fronte unico del terrorismo internazionale. Proprio per questo deve esistere un fronte unico dei Paesi che ripudiano e combattono il terrorismo. L’Italia fa la sua parte. Abbiamo accolto subito l’invito del presidente Obama a rafforzare il nostro contingente in Afghanistan con altri mille uomini nel 2010. Abbiamo dichiarato la nostra disponibilità a introdurre i body scanner negli aeroporti. È sul terreno concreto del contrasto e dell’intelligence che si decide la lotta contro il terrorismo. Ma i nostri militari che operano per la pace in diverse aree del mondo sono conosciuti soprattutto per la capacità di stabilire dei buoni rapporti con le popolazioni locali. Bisogna togliere ad Al Qaida la base stessa delle sue campagne d’arruolamento, in Medio Oriente come in Europa. E bisogna vigilare sui Paesi che sembrano vicini a dotarsi dell’arma nucleare, magari coltivando il folle desiderio di cancellare Israele dalla mappa geografica».

Il contributo concreto dell’Italia e dell’Europa per fermare la corsa iraniana al nucleare.
«Prima di tutto l’intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire con parole chiare, univoche e unanimi, che in linea di principio non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e negano insieme la Shoah e la legittimità di un focolare nazionale ebraico. Su queste cose a me non piace scherzare, eludere il problema, diplomatizzare in modo formalistico le questioni. La tragedia della guerra mondiale e dello sterminio degli ebrei d’Europa non comincia il 1° settembre del 1939, con l’invasione della Polonia: comincia con il cedimento delle democrazie occidentali a Monaco, comincia con lo spirito di Monaco che prometteva “pace per il nostro tempo” e invece diede il via a una delle stragi più grandi della storia umana. Detto questo, la via del controllo multilaterale sugli sviluppi del programma nucleare iraniano, del negoziato intelligente, delle sanzioni efficaci è quella da percorrere. Bisogna esigere garanzie ferree dal governo di Teheran, impegnare in modo significativo l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica nel controllo ispettivo e nella certificazione dei passi avanti eventuali del negoziato. Non si deve respingere alcun segnale di buona volontà da parte iraniana, ma e già accaduto che gli sforzi di dialogo siano stati frustrati dalla logica dell’inganno e del comprare il tempo. A chi voglia metterci di fronte al fatto compiuto occorre dare risposte robuste e maliziose».

È stato il presidente Berlusconi, negli anni scorsi, a guidare l’iniziativa che ha portato all’inclusione di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea. La conflittualità tra fazioni palestinesi e la preclusione verso Hamas.
«Io dico sempre ai miei interlocutori, ai leader dei Paesi che accusano Israele di sviluppare una politica aggressiva degli insediamenti, che la pace dipende anche dall’unità che il mondo palestinese riuscirà a ricostituire al proprio interno. È la conflittualità tra fazioni palestinesi a indebolirne i leader come interlocutori e a creare disorientamento. Solo una ritrovata concordia tra i palestinesi può rendere credibile la ripresa di autentici negoziati di pace con Israele. Inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea è stato un atto doveroso. Ma non è stato facile. Non è, e non sarà, possibile alcun confronto con chi non accetta i tre principi del Quartetto, e cioè la fine della violenza, il rispetto degli accordi precedenti e il riconoscimento esplicito e assoluto di Israele. L’esistenza e l’identità storica di Israele vanno assolutamente difese. Naturalmente, il diritto alla pace di Israele si specchia nel diritto dei palestinesi alla costruzione di uno Stato indipendente».

Il coinvolgimento di Siria e Libano nel processo di pace in Medio Oriente.
«Henry Kissinger diceva che in Medio Oriente nessuna guerra è possibile senza l’Egitto, ma nessuna pace è possibile senza la Siria. Grazie al coraggio di statisti come Sadat e Begin, l’Egitto è uscito definitivamente da questo schema e il presidente Mubarak ha continuato con determinazione su quella strada. È arrivato il momento in cui Siria e Israele lavorino insieme per una pace che preveda la restituzione del Golan insieme con l’avvio di relazioni diplomatiche e di amicizia tra i due Paesi e alla cessazione, da parte di Damasco, del sostegno alle organizzazioni che non riconoscono il diritto all’esistenza di Israele. Stiamo tutti lavorando per una soluzione globale e la presenza italiana in Libano lo testimonia».

Il presidente Berlusconi è l’ideatore del cosiddetto Piano Marshall per il Medio Oriente, un’idea che ha raccolto nel corso degli anni il consenso di tutte le parti. Il contributo che la prospettiva di un rilancio economico può concretamente offrire a chi spera nella pace.
«Non c’è benessere senza pace, ma anche la prospettiva del benessere può essere di spinta alla costruzione di una pace che magari sembra impossibile. È evidente che il Piano Marshall si potrà realizzare solo dopo la ricomposizione del conflitto, ma la sola aspettativa di un rilancio dell’economia palestinese con le sue ampie ricadute regionali su Israele e la Giordania dovrebbe essere già di per sé uno sprone per riallacciare il dialogo. Penso alla concreta possibilità di promuovere il turismo religioso nei Territori, alla costruzione di accoglienti infrastrutture alberghiere, a opere importanti come il collegamento tra il Mar Rosso e il Mar Morto. L’alta disoccupazione tra i palestinesi è chiaramente un vantaggio per le organizzazioni che profittano della povertà e della disperazione per reclutare estremisti. Il premier Netanyahu, così come i suoi predecessori, si è detto favorevole al Piano Marshall e al percorso di una “pace economica”. In tutte le sedi, bilaterali e internazionali, ho raccolto consensi su questa mia idea. Ci lavoro da oltre dieci anni e spero di poter coronare questo sogno. Ma diciamoci la verità: la West Bank si sta già rilanciando economicamente, la scelta di stare meglio, che poi è la scommessa della pace economica o del piano Marshall, la stanno già compiendo le popolazioni palestinesi. Uno Stato o una autorità nazionale non si costruiscono con proclami e violenze, ma con la ricerca perseverante del bene comune per il popolo. Le classi dirigenti palestinesi sono chiamate a questa missione, che è il vero possibile nucleo di una futura autonomia e unità nazionale nella convivenza e nella pace con i vicini, con Israele, e con un Israele sicuro, prima di tutto».

I sentimenti con i quali Silvio Berlusconi si prepara a parlare per la prima volta davanti alla Knesset.
«Ho già detto quale sia la motivazione profonda della mia amicizia verso Israele e il suo popolo, un’amicizia che si rinsalda tutte le volte – ormai capita spesso – che incontro le associazioni ebraiche in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Voglio aggiungere che mi ha profondamente segnato la visita che ho fatto ad Auschwitz. Là mi sono detto: non si può non essere israeliani».

La politica israeliana degli insediamenti.
«La politica israeliana degli insediamenti può rappresentare un ostacolo alla pace. Voglio dire al popolo e al governo israeliani, da amico, con il cuore in mano, che perseverare in questa politica sarebbe un errore. Ho apprezzato il coraggio del premier Netanyahu che ha annunciato una moratoria di dieci mesi. Non si potrà mai convincere i palestinesi della buona volontà di Israele, se Israele continuerà a edificare su territori che dovrebbero essere restituiti nel quadro di un accordo di pace. Tuttavia quanto accadde a Gaza deve farci pensare. Non si possono rimuovere gli insediamenti per avere sinagoghe bruciate, devastazioni e violenza infra-palestinese e lanci di razzi in territorio israeliano. Gli arabi vivono in Israele e partecipano alla sua splendida vita democratica, e la guerra sarà davvero finita quando i palestinesi accetteranno di ripristinare la grande tradizione araba di tolleranza e di ospitalità verso gli ebrei nel loro territorio. Anzi, oggi bisogna andare oltre la tolleranza e affermare una piena convivenza e cooperazione, con una totale libertà religiosa, civile e culturale. Condannare gli insediamenti con gli stessi argomenti dell’estremismo è troppo facile, è ipocrita e non è degno delle classi dirigenti dell’Occidente democratico. Io non ci sto».

Le ragioni dell’altissimo tasso di popolarità di cui Berlusconi gode in Italia nonostante le polemiche di questi ultimi mesi.
«Io sono stato vittima per molti mesi di una campagna di stampa che è stata probabilmente la più aggressiva e calunniosa di quante ne siano mai state condotte contro un capo di governo. Ho subito aggressioni politiche, mediatiche, giudiziarie, patrimoniali e anche fisiche. Ma gli italiani, che hanno buon senso, mi hanno confermato la loro fiducia che è salita al 68 per cento, una percentuale addirittura imbarazzante per il leader di una democrazia occidentale. Per loro hanno contato i risultati concreti della mia azione di governo, che sono stati tanti e importanti».

Il bilancio della propria carriera di leader. Di cosa va più fiero e cosa non ripeterebbe o farebbe diversamente.
«Non cambierei nulla di quel che sono riuscito a fare. Mi trovo a essere il presidente del Consiglio che ha governato più a lungo nella storia della Repubblica italiana e quindi ho avuto la possibilità di realizzare molte riforme, dalla scuola all’economia, dalla pubblica amministrazione alle infrastrutture e anche il prestigio dell’Italia sulla scena internazionale è aumentato per i tanti contributi che abbiamo dato alla soluzione di tante situazioni difficili. Il mio problema non è il bilancio del passato, che è buono pur con tutti i possibili errori, il problema è realizzare il sogno del futuro: uno Stato meno invadente, un cittadino più autonomo, più responsabile, più libero. Bisogna riuscire a diminuire la pressione fiscale e a portare l’imposta sui redditi a un livello accettabile, che consenta una nuova amicizia leale fra cittadino e Stato. Questa è la parte finale della mia missione di italiano, di europeo, di imprenditore e di uomo di governo».

La STAMPA – Maurizio Molinari : " Perchè Bibi non crede nella carta dei due Stati "

Daniel Pipes

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta, bisogna immaginare soluzioni alternative». Così Daniel Pipes, direttore del «Middle East Forum» molto ferrato sul clima politico in Israele, descrive «che cosa c’è nella mente di Benjamin Netanyahu» in merito al negoziato con l’Autorità palestinese.
Perché le trattative fra Israele e palestinesi non riprendono?
«In maggio il segretario di Stato Hillary Clinton propose come base per la trattativa il congelamento totale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, trovando il totale consenso di Abu Mazen, ma poi in settembre Washington ha cambiato idea, accettando la proposta di Netanyahu di un congelamento limitato a 10 mesi mentre Abu Mazen l’ha rifiutata. Il rovesciamento di posizione degli Usa è all’origine del corto circuito fra Israele e Anp. Al momento Usa e Israele hanno la stessa posizione mentre l’Anp ne ha una differente».
Quale idea ha Netanyahu di una composizione del conflitto?
«L’ultima proposta che ha fatto è stata quella di far permanere l’esercito israeliano in Cisgiordania dopo l’eventuale nascita dello Stato palestinese. E’ da qui che bisogna partire per comprendere Netanyahu».
Perché è così importante?
«Il motivo per cui Netanyahu vuole lasciare contingenti di truppe è evitare il ripetersi del precedente della Striscia di Gaza, dove il completo ritiro israeliano ha consentito ai gruppi terroristici di trasformare quel territorio in una base per lanciare attacchi contro Israele. C’è forte consenso fra gli israeliani su questa richiesta, nessuno vuole una nuova Gaza in Cisgiordania, ma i palestinesi non ne vogliono sapere e questo ha messo la pietra tombale su un negoziato neanche iniziato».
Nelle ultime settimane Netanyahu è andato a piantare alberi in diversi insediamenti affermando che non saranno mai restituiti. Che cosa sta tentando di ottenere con tali iniziative?
«Punta a rassicurare la destra della sua coalizione di governo che si oppone radicalmente al piano di congelamento totale per dieci mesi. Netanyahu sa che il suo governo sopravvive grazie al sostegno del Likud e dei partiti di destra e vuole provare loro con i fatti che non intende restituire gli insediamenti che hanno una posizione strategica per la sicurezza nazionale, che sono poi i più popolosi».
Insomma, la soluzione dei due Stati non appare vicina…
«Direi che è morta e sepolta. I palestinesi sono divisi fra Gaza nelle mani di Hamas e la West Bank gestita da un debole Abu Mazen e sono in disaccordo sulla scelta di negoziare perché Hamas persegue ancora l’opzione militare, mentre in Israele Netanyahu non ha mai fatto mistero di non considerare una priorità la nascita dello Stato di Palestina. Soprattutto dopo le conseguenze molto negative del ritiro da Gaza».
Vi sono opzioni alternative per sancire una convivenza stabile fra israeliani e palestinesi?
«Di certo c’è solo che la soluzione dei due Stati non si regge in piedi. In assenza di ricette alternative, l’unica soluzione per guardare al futuro è nell’ispirarsi al passato, ovvero nell’ipotizzare un coinvolgimento dell’Egitto nella gestione di Gaza e della Giordania per la West Bank. Magari con il sostegno di altri Stati arabi, come l’Arabia Saudita o la Tunisia. Chi ha idee alternative è invitato a farsi avanti».
Sul fronte del negoziato Israele-Siria ci sono più spiragli?
«Nel 1998-1999 Netanyahu era pronto all’accordo di pace con Hafez Assad. Fu solo l’opposizione di Ariel Sharon a fermarlo. Dunque è lecito supporre che quel compromesso di pace con la Siria potrebbe essere ritentato adesso. C’è però l’incognita di Bashar, figlio di Hafez, che oggi guida la Siria con meno autorità e più incertezze del padre».

CORRIERE della SERA – Francesco Battistini : " Ma Silvio è un nostro grande amico. E con Teheran l’Italia farà la sua parte "

Avi Pazner

GERUSALEMME — «Così imponente, con tutti questi ministri, ricordo una sola missione: quella di De Mita, quando agli Esteri c'era Andreotti. Nel 1987. Ma non si può paragonare l'atmosfera: la prima intifada appena iniziata, grandi discussioni su chi avesse ragione fra noi e i palestinesi… Oggi, queste discussioni non esistono più. Come noi, Berlusconi vorrebbe una soluzione per lo Stato palestinese. Ma se legge la sua intervista a Haaretz, noterà la grande amicizia per Israele e il popolo ebraico». Ambasciatore a Roma negli anni '90, storico portavoce dei governi israeliani, Avi Pazner s'è occupato molto della tre giorni del presidente del Consiglio fra Gerusalemme e Betlemme: «Questa è la visita del nostro grande amico europeo. È significativo che Berlusconi venga con una delegazione simile. Sarà accolto con l'amicizia che merita. La cena offerta da Netanyahu, il galà da Peres… L'onore di parlare davanti alla Knesset è stato riservato a pochi, negli ultimi anni: Bush, Sarkozy, Angela Merkel».

Ma in quell'intervista, Berlusconi critica anche la politica degli insediamenti d'Israele…

«Fra trenta punti positivi trattati, Haaretz ha scelto di titolare proprio su quest’aspetto. Berlusconi non ha dichiarato nulla di nuovo. Haaretz è un grande giornale. Però è di sinistra».

Non è strano che Berlusconi l'abbia scelto?

«Io sono stato per molti anni il consigliere per i media d'un premier israeliano, Yitzhak Shamir. A volte, ho fatto delle scelte che la gente non capiva. Ma avevo delle ragioni. Voglio pensare ci siano motivi che non conosco».

Israele ha una grana Iran, da sottoporre a Berlusconi.

«Si parlerà del nucleare iraniano, chiaro. Ho notato che Berlusconi parla di nuove sanzioni da adottare. C'è un pericolo enorme e lentamente ce ne si sta rendendo conto. Quando si tratterà di prendere misure più pesanti, l'Italia farà la sua parte».

Sì, ma c'è un dossier del ministero degli Esteri israeliano che accusa l'Italia d'essere ancora il secondo Paese, dopo la Germania, nel volume d'affari con gli ayatollah. E qualcuno ha osservato che sotto Berlusconi, prima delle sanzioni, questi scambi erano addirittura quadruplicati…

«Si parlerà anche di questo. Ha visto che, il giorno dopo la visita in Germania di Netanyahu, la Merkel ha tagliato le attività della Siemens in Iran? Immagino che succederà qualcosa del genere con l'Italia».

A proposito: anche Netanyahu è finito nella bufera per la sua vita privata (le intemperanze della moglie con la colf) e anche lui se l'è presa con la stampa cattiva…

«Non sono questioni che riguardano le visite di Stato. Sono problemi interni. E resteranno fuori dai colloqui, anche se Berlusconi è uno che parla di tutto». Lo conosce bene? «Altroché. L'ultima volta ci siamo visti a Roma, a novembre. Avevo portato in Italia i grandi donatori d'Israele. Ha dato una serata a Villa Madama, è stato a tavola tre ore con noi. Non ridevo tanto da anni. C'erano 200 persone di 32 Paesi, tutti ad ascoltare le barzellette del premier. Sono sicuro che sono tornati a casa con una gran voglia di fare pubblicità all'Italia».

Anche in Israele c'è stato qualche magnate che s'è buttato in politica…

«Berlusconi è un fenomeno a parte. Uno deve imparare a conoscerlo. Nella mia vita, ho incontrato migliaia di leader. Non è mai esistito, uno così». In che senso? «Lo dico con ammirazione».

L'UNITA' – Saeb Erekat : " Senza pressioni internazionali Israele non cambierà linea"

Il titolo di negoziatore non si addice a Saeb Erekat. Negoziare, infatti, significa cercare dei compromessi. Ma, come risulta evidente dall'intervista che segue, Erekat è in grado solo di avanzare pretese senza offrire nulla in cambio. Ecco l'intervista:

Saeb Erekat

Il modo migliore per essere protagonisti in Medio Oriente è quello di dimostrarsi con i fatti super partes. È un consiglio che mi sento di dare al presidente Berlusconi».
A parlare è una delle figure di primo piano della dirigenza palestinese: il capo dei negoziatori dell'Anp, Saeb Erekat. «
Al premier italiano – anticipa Erekat – ribadiremo che il blocco totale degli insediamenti non è una concessione di Israele ma significa dar seguito a quanto indicato dalla “Road Map”, il piano di pace delineato dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Ue, Onu, Russia)».
Domani (oggi per chi legge) il presidentedelConsiglioitaliano, Silvio Berlusconi, sarà in Israele e successivamenteaRamallah. Netanyahuhaindicato in Berlusconi il più grande amico d'Israele.
«Mi auguro che il presidente Berlusconi sia soprattutto amico della pace… ».
Il che significa?
«Significa non avallare la politica unilaterale, dei fatti compiuti, portata avanti dal governo israeliano. Mi riferisco alla colonizzazione dei Territori. Colonizzazione e pace sono tra loro inconciliabili. Ci attendiamoparole chiare del presidente Berlusconi al riguardo. L'Italia ha una lunga tradizione di amicizia con il popolo palestinese. Spero che non abbandoni questa strada».
In una intervista ad Haaretz,Berlusconi ha affermato che è un errore per Israele perseverare con gli insediamenti.
«Un errore perseguito scientemente. È importante questa affermazionedel primo ministro italiano, in sintonia con quanto sostenuto da altri leader europei e dal presidente Usa Barack Obama. Il punto è come praticare queste parole, perché senza pressioni internazionali Israele non modificherà la sua politica». Ma Netanyahu si è impegnato a uno stop di 10 mesi.
«Uno stop sulla carta, che peraltro non riguarda Gerusalemme Est. La nostra posizione è chiara: il blocco degli insediamenti deve essere totale. E questa, voglio sottolinearlo, non è una pregiudiziale da parte nostra né una concessione unilaterale d'Israele. Si tratta di rispettare accordi internazionalied essere coerenti con l'affermazione di aderire allaRoad Map. Netanyahu rivolge appelli ai palestinesi per riprendere i negoziati. E tuttavia non ci ha lasciato nulla su cui negoziare. Il premier israeliano sta lavorando ad un piano a un piano per sabotare la soluzione “due popoli, due Stati” portando avanti la colonizzazione e insistendo sulla necessità di una presenza dell’esercito israeliano lungo i confini (di un eventuale Stato palestinese, ndr). Insisto sul blocco degli insediamenti. Comepotremmo negoziare i confini dello Stato palestinese mentre i bulldozer e le colonie mangiano la terra sulla quale vogliamo costruirlo? ».
Sullo stop alla colonizzazione si è detto. Cos’altro la dirigenza palestinese chiederà a Berlusconi?
«In più occasioni, in incontri bilateralicomein vertici e conferenze internazionali, il presidente Berlusconi ha fatto riferimento ad un “Piano Marshall” per la Palestina. Unabuona idea che andrebbe concretizzata, perché è evidente che un miglioramento delle condizioni di vita nei Territori, la ricostruzione delle infrastrutture economiche palestinesi, possono dare un impulso importante al processo di pace».
Berlusconi ha affermato che è «doveroso » inserire Hamas nella «lista nera»delle organizzazioni terroristiche.
«Hamas va sconfitto politicamente e il modo migliore è dimostrare con i fatti che la linea vincente è quella del negoziato. Non si sconfigge Hamas facendo di Gaza una prigione a cielo aperto».
L’Europa sta giocando un ruolo politico adeguato in Medio Oriente?
«L’Europa conterebbe di più se parlasse con una sola voce…».
Una voce in sintonia con quella di Barack Obama?
«Il presidente Usa ha suscitato grandi aspettative ma i fatti non le hanno ancora supportate. L’Europa potrebbe contribuire a realizzarle ».
Lei di recente si è mostrato alquanto scettico sulla realizzabilità di una pace fondata su due Stati. ?
«Il principio è giusto, ma Israele sta facendo di tutto per svuotarlo di ogni realizzabilità. Al presidente Berlusconi mostreremo la carta della Cisgiordania, un territorio spezzato da decine insediamenti che Israele ha trasformato in città. Dove dovrebbe nascere il nostro Stato?»

 

One Response to Berlusconi in Israele: 1°giorno – intervista ad Haaretz, che scelta infelice

  1. Admin ha detto:

    [color=#0033cc]
    [b]Tutte mega-stupidaggini.[/b][/color]

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