[b]Analisi
di Janiki Cingoli[/b]

Netanyahu come Sharon e come Begin? O Netanyahu furbo uomo di potere e manipolatore della politica e delle relazioni internazionali? È questo il dibattito apertosi nella sinistra israeliana e sulla stampa internazionale, come già su altri precedenti leader del Likud. Leader che finché erano stati all’opposizione avevano tenuto posizioni dure e intransigenti, per poi cambiare atteggiamento e visione una volta assunte responsabilità di governo.

Anche il nuovo premier israeliano avrebbe realizzato, una volta riconquistata la guida del governo, che il nuovo contesto internazionale, la necessità di salvaguardare gli storici legami di alleanza con gli Stati Uniti, con la nuova presidenza Obama, e soprattutto la necessità di fronteggiare al meglio la minaccia iraniana, gli impongono di non restare inchiodato ai vecchi dogmi, ma di muovere anche se gradualmente verso posizioni più aperte. Gradualmente, perché la coalizione che ha messo in piedi è quanto mai eterogenea, e va da partiti di estrema destra ai partiti religiosi, al laico ultranazionalista Israel Beitenu, guidato dall’attuale e contestato ministro degli esteri Avigdor Lieberman, fino allo stesso partito laburista, con alla testa il ministro della difesa Ehud Barak.

Va detto tuttavia che la stessa volontà, tenacemente perseguita, di includere i laburisti nel governo, è stata dettata evidentemente dalla volontà di non farsi rinchiudere nel ghetto dell’ultra-destra, di lasciarsi spazi di manovra e di iniziativa politica. E il tandem Netanyahu – Barak ha funzionato bene, finendo in certi momenti per costituire il vero asse del governo, ridimensionando di fatto il ruolo di Lieberman, soprattutto per quanto riguarda il lavoro di ricucitura con la nuova amministrazione Usa. Questa intricata situazione ha condotto il premier israeliano a una complicata andatura a zig-zag, in cui alle mosse di apertura verso la parte palestinese ne facevano riscontro altre tese a rassicurare i suoi alleati di destra e gli stessi coloni: un comportamento per certi versi
schizofrenico. Non si può negare che molte decisioni del nuovo governo siano andate più avanti di quanto non fosse mai riuscito allo stesso Olmert: la rimozione della maggior parte dei blocchi stradali e l’allentamento dei vincoli agli accessi verso Israele, in Cisgiordania (insieme alla positiva politica economica condotta dal governo Fayyad), ha consentito per la prima volta in molti anni una crescita dell’economia palestinese in quell’area, con previsioni ancor più positive per il prossimo anno; la cooperazione tra le rispettive forze di sicurezza, in parallelo all’addestramento e all’equipaggiamento delle sue forze di polizia, ha consentito d’altra parte all’Anp di ripristinare l’ordine nelle maggiori città palestinesi. D’altro canto, con il suo discorso di Bar-Ilan Netanyahu ha rotto, come già Sharon, con la tradizionale pregiudiziale del Likud contro la propo sta “due stati due popoli” e contro l’idea di accettare la formazione di uno stato palestinese: sia pur accompagnando tale apertura con una serie di riserve e condizioni quali il riconoscimento di Israele come stato ebraico e il mantenimento di Gerusalemme come sua capitale unica e indivisibile. Ma, per così dire, un negoziato è un negoziato, l’importante è che la pregiudiziale sia rimossa.

Infine, l’annunciato congelamento per 10 mesi degli insediamenti (pur con l’esclusione di Gerusalemme Est, di circa 3000 unità in costruzione, e di nuove opere pubbliche previste), che ha provocato la reazione accesa degli stessi coloni e dei rabbini ad essi legati, che sono giunti a predicare la necessità di una disubbidienza di massa nell’esercito. A ogni apertura ha corrisposto, come si è detto, un passo per rassicurare la destra: la concessione di nuovi permessi di costruzione subito prima dell’annuncio del congelamento, il ripristino anche per le colonie più isolate dei finanziamenti speciali statali, l’annuncio, di questi giorni, di 700 nuove unità abitative a Gerusalemme Est. Secondo notizie pubblicate da Haaretz, l’ex- leader del Meretz Yossy Beilin avrebbe appreso da autorevoli fonti statunitensi che sta per essere final izzato l’accordo con gli Usa per la ripresa delle trattative con i palestinesi: un termine di due anni per i negoziati stessi; tutte le questioni relative al Final status sul tappeto, inclusa Gerusalemme; l'obbiettivo comune è porre termine al conflitto, riconciliando la posizione dei palestinesi, volta a stabilire uno stato palestinese indipendente sulla base dei confini del 1967, con scambi territoriali concordati, con la posizione israeliana di uno stato ebraico con confini sicuri e riconosciuti.

Una proposta che potrebbe essere accolta dallo stesso Abu Mazen, consentendo la ripresa del negoziato. Si capisce meglio, in questa ottica, l’iniziativa del premier israeliano per un ingresso di Kadima e Tzipi Livni nel governo, anche se formulata in modo non accogliibile (con la concessione solo di due o tre ministeri senza portafoglio), ed il parallelo tentativo, per ora fallito, di disgregare Kadima con l'uscita di molti suoi parlamentari: i tempi delle scelte si avvicinano, e forse sarà necessario rimpiazzare qualche componente della maggioranza, più insofferente alle nuove aperture. Netanyahu potrebbe essere definito, in qualche modo, un leader a geometria variabile: privo forse di grandi slanci ideali, ma ferramente determinato a svolgere il suo ruolo e a portarlo avanti, difendendo quello che egli ritiene essere, non necessariamente a ragione, il bene del suo paese, alle miglior i condizioni possibili.

 

One Response to Netanyahu e il suo doppio

  1. Admin ha detto:

    E' ormai evidente che i politici israeliani sono più intelligenti di quella fascia di elettorato talmente balorda da ritenere si possa giungere da qualche parte continuando a sciamare nei territori palestinesi.

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