Il Sionismo e la fondazione di Israele
[b]Elena Loewenthal legge Georges Bensoussan[/b]
Sulla STAMPA del 25/11/2009, a pag.40, Elena Loewenthal legge Georges Bensoussan, dopo l'uscita in Italia del suo libro " Israele, un nome eterno "(Utet) e lo commenta in un articolo dal titolo approppriato di " Lo Stato ebraico non "grazie", ma "nonostante" la Shoah ".
La rinascita dello Stato ebraico e la catastrofe europea della Shoah sono legate da un nesso innegabile, tragicamente indissolubile. È un’evidenza storica che non si può ignorare. Ciò non toglie che il più delle volte gli estremi di questo nesso vengano confusi, generando un equivoco di fondo. Lo Stato d’Israele non è la conseguenza della Shoah: non deve la propria esistenza allo sterminio di sei milioni di ebrei. Anzi. Georges Bensoussan – grande studioso del sionismo – ci dimostra il contrario, e cioè che Israele è nato non grazie, bensì nonostante la Shoah. «Si tratta di un legame negativo», scrive in Israele, un nome eterno (Utet, pp. 203, e22), sotto tre punti di vista fondamentali, d’ordine politico, morale e demografico.
Il sionismo è infatti un fenomeno intrinseco alla civiltà ebraica. Si può condividere o meno questa ideologia, innanzitutto d’ordine politico, ma non si può negare che faccia parte dell’anima d’Israele: non è una contingenza, né la passiva adozione di canoni nazionalistici altrui, da parte del mondo ebraico. È invece un fil rouge che accompagna da sempre questa esperienza storica. Bensoussan ci racconta che nel 1922, nella Palestina sotto mandato britannico, l’ebraico è una delle tre lingue locali ufficiali, con l’inglese e l’arabo. Questo perché già allora lo Yishuv, cioè il mondo ebraico organizzato prima della creazione dello Stato vero e proprio, vanta una storia di tutto rispetto. Nel 1948, anno della fondazione ufficiale, Israele è ormai da generazioni un sistema sociale, politico, culturale, produttivo. Lo Stato non sorge dal nulla, ma sigla quella costruzione politica e storica che il sionismo ha creato sulla lunga distanza.
Spazzato via il pregiudizio che stabilisce un nesso di «dipendenza» tra lo Stato ebraico e la Shoah, Bensoussan si sofferma su questo complesso e tragico rapporto. È una storia di grande interesse e persino di fascino, se questa parola non fosse così inadeguata al contesto. Che è segnata prima da una muta rimozione della memoria, e poi dalla devozione a essa: fino al processo Eichmann, nel 1961, i sopravvissuti tacevano. Il loro ruolo di vittime era insostenibile in quel nuovo presente. E il silenzio era un meccanismo di difesa, di sopravvivenza. Le deposizioni dei testimoni al processo, la sua innovativa portata mediatica, hanno «personalizzato» quella sofferenza inenarrabile, dandole corpo e voce. L’hanno resa dicibile, oltre che denominatore emotivo del paese. Bensoussan esplora la complessità di questo rapporto, con le sue instabili contraddizioni e la certezza di uno sgomento che, a distanza di anni e generazioni, è ancora molto difficile da articolare.
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