[b]Roberto Fontolan
giovedì 29 ottobre 2009[/b]

Il ticchettio è ancora leggero, ma ha chiaramente superato la soglia dell’impercettibilità.
È ripreso da un po’ di settimane, da quando si è notato che il discorso di Obama al Cairo sul nuovo atteggiamento americano nei confronti dell’Islam e il successivo incontro tripartito a Washington con i riluttanti Netanyahu e Abu Mazen non hanno impresso nuovi ritmi o ravvicinato un ipotetico calendario di negoziato.

Israeliani e palestinesi restano distanti, e molto. La costruzione di nuove case per i gruppi irriducibili dei coloni, che ha scatenato le solite critiche sul governo di Tel Aviv, a partire dal segretario generale dell’Onu; poi gli scontri sulla spianata delle moschee; e ancora un nuovo round di tensioni tra Hamas e l’Autorità palestinese; infine la sparata di un razzo dal sud del Libano verso il nord di Israele con la consueta e prevedibile risposta.

Un'escalation ancora piccola, ma del tutto evidente. Il vuoto di azione diplomatica si riempie facilmente di eventi ostili e gli eventi ostili altrettanto facilmente degenerano in esplosioni incontrollabili. Del resto, alla vigilia della sua visita in Italia, la settimana scorsa, il re di Giordania aveva rilasciato un'intervista insolitamente dura e ultimativa nei confronti di Israele nel descrivere lo sfinimento generale davanti all'assenza di proposte, di percorsi, di prospettive.

Molti giochi delle ultime settimane hanno riguardato l’Iran e la predisposizione rapida di piani per fermarne la corsa atomica ha concentrato l’attenzione generale, ma ora anche questa faccenda si svilupperà in tempi parecchio dilatati e dunque la parentesi si è chiusa: davanti agli Stati Uniti, davanti all’Europa, davanti al mondo arabo, davanti a Israele resta come sempre la questione palestinese.
I brogli elettorali dell’Afghanistan o le autobomba di Bagdad possono nasconderla, ma solo per poco tempo, perché poi il suo profilo scuro riappare e ingombra lo sguardo. E gli unici fatti nuovi non sono positivi.
Gli analisti segnalano che nella striscia di Gaza (ma che fine hanno fatto tutti i soldi degli aiuti per la ricostruzione? chi ne sa qualcosa?) persino Hamas ha problemi di controllo del territorio. Sono cresciute milizie nuove capaci di sfidarne l’autorità a colpi di Corano e Sharia.

I salafiti, ad esempio, per i quali Hamas non può più fregiarsi del titolo di organizzazione di resistenza islamica avendo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale in gennaio davanti all’esercito israeliano invasore.

In agosto un raid di Hamas contro i salafiti, che avevano proclamato l’esistenza dell’ “emirato di Gaza”, aveva portato alla morte del loro leader. Attualmente nelle prigioni di Gaza sono detenute decine di militanti del gruppo, ma vengono ormai registrate come operanti quattro diverse milizie armate salafite, per un totale di circa 500 membri (o forse più), attualmente più impegnati a colpire Hamas che a combattere contro Israele.

E per dar conto della pericolosità di questi movimenti basti ricordare l’Algeria, dove a lungo hanno seminato morte. L’indebolimento di Hamas non è certo una sventura, ma sarebbe un ben misero risultato se a trarne vantaggio fossero reti di gruppi taleban-style. In realtà quello che appare come un vuoto brulica di attività e nessuna di buon auspicio.

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.