[b]INT. Emmanuel Anati
lunedì 26 ottobre 2009
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La notizia ha fatto il giro del mondo, sebbene in Italia sia passata in sordina e spesso mal interpretata, forse poco compresa. Peccato che la scoperta di cui si parla sia stata fatta da un’equipe italiana, guidata da un archeologo e docente universitario italoisraeliano, Emmanuel Anati. Ma si sa, nemo propheta in patria. E così abbiamo dovuto cercarlo e intervistarlo. Perché quello di cui si parla è niente meno che il monte Sinai. Non quello che ci ritroviamo sfogliando un atlante e cercando la penisola del Sinai in Egitto, ma quello vero di cui parla la Bibbia e sul quale centinaia di popolazioni millenni orsono pregavano, sacrificavano, immolavano. Ognuna verso il proprio dio, quasi come una torre di Babele delle religioni.

Professor Anati, ci spieghi un po’ meglio di come hanno fatto alcuni media in che cosa consistono le vostre scoperte e ricerche

Nella ricerca che abbiamo condotto siamo giunti a diverse scoperte, tutte molto interessanti, per non dire sensazionali. La prima di queste riguarda un sito archeologico contenente resti di circa 10.000 anni fa. Nel sito si possono facilmente riscontrare diversi livelli di abitazione. Si tratta insomma di un abitato permanente, ci sono costruzioni in pietra massiccia, in quello che oggi è il cuore del deserto. Per cui possiamo dire che il clima della zona è notevolmente cambiato perché al giorno d’oggi da quelle parti non ci vivono neanche i beduini, è una zona in pieno deserto.

Qual è il valore scientifico di questa scoperta?

In poche parole è la rivelazione dell’esistenza di una cultura di popoli cacciatori che cominciavano a fare la raccolta di grani naturali, davano quindi inizio a una nuova era che era quella della produzione del cibo. Non si trattava ancora di una civiltà agricola, però abbiamo con questa scoperta la prova dell’esistenza di un villaggio di insediamento dove vivevano persone in permanenza all’interno di capanne ovali e non nomadi.

Quindi l’importanza risiede nell’antichità dell’epoca a cui risale questo villaggio?

Certo, consideriamo che si tratta di uomini del periodo Paleolitico, per lo più ritenuti nomadi o seminomadi. Ma qui arrivo al secondo aspetto della nostra ricerca. Abbiamo scoperto dei geoglifi, ossia delle scritture fatte con ciottoli sulla superficie della montagna Har Karkom. Si tratta di figure imponenti, lunghe anche più di una trentina di metri, che rappresentano in più occasioni anche l’elefante e il rinoceronte, animali che sono scomparsi da questa zona si stima da più di 20.000 anni. Per cui si tratterebbe dei più antichi geoglifi al mondo trovati finora. La cosa interessante è che c’è una ventina di questi geoglifi concentrati in quattro chilometri quadrati, per cui doveva essere una zona sacra. Queste figure avevano molto probabilmente finalità di tipo totemico e ciò rivela un aspetto dell’intellettualità dell’uomo paleolitico che era finora sconosciuto.

Lei però ha anche dichiarato che le “sorprese” per quel che riguarda il monte Har Karkom non finiscono qui

No, infatti. Un altro aspetto che è stato ulteriormente verificato è la presunta identità di questa montagna con il famoso monte Sinai di cui parla la Bibbia. Abbiamo riscontrato prima di tutto che l’Har Karkom è l’unica montagna di tutto il deserto del Neghev recante importantissimi resti di culto dell’età del bronzo. Ci sono più di cento santuari su questa montagna che è stata un luogo di culto per moltissimi anni e in particolar modo durante l’età del bronzo. Abbiamo trovato anche delle vestigia del culto del dio “Sin” che è la divinità identificata nella Luna. Abbiamo ipotizzato che il nome Sinai, che è un genitivo sin-ai ossia “di Sin”. Questo dio Sin è probabilmente precedente, è un dio semitico mesopotamico che ha preceduto il dio degli ebrei.

C’è però anche un legame fra la tradizione ebraica e questi luoghi?

Sì, perché analizzando a fondo 32 punti della Bibbia nei quali si dà un’indicazione topografica dell’ubicazione del monte Sinai si è riscontrato che tutti in assoluto corrispondono all’ubicazione di Har Karkom. Purtroppo la cultura ebraica a quell’epoca non esisteva ancora in quanto tale e Mosé non ha lasciato il suo “biglietto da visita”. È suggestivo però che si siano trovati oggetti di origine egiziana che dimostrano che chi li ha lasciati veniva dall’Egitto.

Quindi potrebbero essere stati lasciati dagli ebrei come afferma il libro dell’Esodo?

Può darsi, ma bisogna chiarire una cosa: l’archeologo confronta quello che ha trovato con i dati storici o con i testi anche sacri, come nel caso della Bibbia. Possiamo dire quindi con quasi certezza che questa montagna è quella che la Bibbia descrive come monte Sinai, ciò che non possiamo affermare scientificamente è che siano avvenute rivelazioni o miracoli su questa montagna, perché di quelli non abbiamo traccia. In poche parole non abbiamo trovato le Tavole della Legge, come alcuni hanno pensato. E l’Arca dell’Alleanza non credo nemmeno che sia passata da quelle parti.
Se da lì passarono anche gli ebrei essi hanno rappresentato soltanto uno degli episodi storici relativi a questo monte perché esso è stato sacro per molte altre popolazioni. La cultura ebraica è nata di fatto con Salomone, prima c’erano tribù di semiti che non avevano una cultura propria. Fra queste c’era una tribù chiamata “Israel” che peraltro è ricordata in un monumento egizio del 1.200 Avanti Cristo.

Per quale motivo avete cominciato a svolgere ricerche sull’Har Karkom?

L’idea nacque 29 anni fa a seguito delle mie scoperte. Infatti trovai delle incisioni rupestri il cui studio volli approfondire. Chiesi allora il permesso di poter ottenere una concessione di ricerca e ottenni ben 200 chilometri quadrati. Era il 1980, allora era piuttosto facile ottenere concessioni rispetto ad adesso. Da quelle mie ricerche crebbe sempre più la voglia di investigare il sito fino a quando non siamo giunti a queste importanti scoperte.

 

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