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[b]Giulio Meotti
Il Foglio 29 luglio 2009
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Roma.
Che cosa ci faceva in Arabia Saudita una delegazione di Human Rights Watch, il Nobel per la pace che dovrebbe difendere i diritti umani nel mondo, nello stesso periodo in cui uno dei suoi massimi dirigenti, il giudice Richard Goldstone, è impegnato a stilare il rapporto dell’Onu su Gaza?
Qual era lo scopo della “cena di benvenuto†a cui la portavoce, Sarah Leah Whitson, ha preso parte a Riad in compagnia di Emad bin Jameel al Hejailan, noto uomo d’affari saudita, e dei membri dello Shura Council, i guardiani dell’islam wahabita?
Erano forse là per protestare contro la mancanza di libertà religiosa e l’impossibilità per un non musulmano di risiedere nel regno?
No di certo.
La superpotenza dei diritti umani doveva incassare donazioni saudite perché, come ha detto la stessa Whitson, si devono bilanciare “i gruppi di pressione pro israeliani attivi negli Stati Unitiâ€.
Lo scandalo rischia di travolgere Human Rights Watch.
Ha scritto sul Wall Street Journal il giurista David Bernstein: “Non è che Human Rights Watch è pro saudita, è maniacalmente anti israeliana. La più recente manifestazione di questo sentimento è nel fatto che i suoi dirigenti non vedono nulla di indecoroso nel cercare fondi tra l’élite di uno dei regimi più totalitari al mondo, pubblicizzando che hanno bisogno di questi soldi per combattere ‘le forze pro-israeliane’â€.
Fonti diplomatiche israeliane ci dicono che anche per questo Gerusalemme si aspetta dal rapporto Goldstone l’avvio di azioni legali contro Israele.
E’ la guerra giuridica.
L’ex refusnik sovietico Nathan Sharansky, che con la sua battaglia dal carcere fu all’origine proprio di Human Rights Watch, dice che l’organizzazione è oggi “strumento nelle mani di regimi dittatoriali per combattere le democrazieâ€.
E’ già un caso diplomatico.
“Non faremo come anatre nello stagno mentre i gruppi dei diritti umani ci sparano impunementeâ€, dice Ron Dermer dall’ufficio del premier Benjamin Netanyahu.
A Gerusalemme ci si prepara all’offensiva.
Dai curricula dei quadri di Human Rights Watch si capisce fino a che punto l’inimicizia antisraeliana sia penetrata ai vertici della Ong:
Sarah Leah Whitson, responsabile per il medio oriente, viene dal Center for social and economic rights che accusa Israele di “colonialismoâ€;
il suo vice, Joe Stork, lavorava per la rivista antisionista Middle East Report;
Lucy Mair nasce a Electronic Intifada;
Nadia Barhoum viene dagli Students for justice in Palestine,
mentre Darryl Li è l’uomo del Palestinian center for human rights, che definisce “atti di resistenza†gli attacchi contro i civili israeliani e che nel suo grossolano elenco delle vittime civili a Gaza enumera anche Nizzar Rayyan, il capo di Hamas che ha mandato uno dei suoi figli a compiere un attentato suicida.
Reed Brody nel 2001 tentò di far processare in Belgio il primo ministro israeliano Ariel Sharon.
Nel board dei direttori siede Charles Shamas, il consulente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina che da anni accusa Israele di “genocidioâ€.
Dall’Olp viene Gamal Abouali,
Ann Lesch dirige il Palestinian American Research Center,
James Zogby è direttore dell’Arab American Institute
e Gary Sick è noto per aver invitato il presidente iraniano Ahmadinejad alla Columbia University.
Il caso “Breaking the silenceâ€
Da Gerusalemme un altro scandalo sta travolgendo le Ong attive nel boicottaggio israeliano.
“Breaking the silence†ha diffuso l’ultimo rapporto sulle presunte violazioni israeliane a Gaza, violazioni mai provate.
Rivela l’organizzazione Ngo Monitor che Breaking the silence ha ricevuto
dall’ambasciata britannica 50mila euro,
da quella olandese 20mila
e dall’Unione europea altri 43mila.
Milioni di euro ogni anno sono elargiti da Bruxelles a Ong che boicottano, demonizzano e incitano alla distruzione dello stato d’Israele
Una delle più feconde Ong antisraeliane pagate da Bruxelles è l’inglese Oxfam, la cui guida turistica “Altri Mondi – Viaggi alternativi e solidali†suggerisce come meta di vacanza la “Palestinaâ€.
Nella cartina di Oxfam, che si è distinta per il boicottaggio di prodotti agricoli israeliani mentre incassava centinaia di migliaia di euro, l’esistenza d’Israele è del tutto ignorata e l’intera zona, dalle rive del fiume Giordano al Mediterraneo, è indicata come “stato palestineseâ€.
La guida suggerisce vari itinerari, come un bagno lungo le spiagge di Tel Aviv o una passeggiata nel Negev.
L’Unione europea finanzia poi sigle come il Gaza Community Mental Health Programme, che equipara i medici israeliani a quelli dei lager nazisti.
Il principale strumento dell’Unione europea per incanalare il denaro è il Partnership for Peace.
Ne beneficiano il Laje’oon Center, che ha ricevuto 249mila euro per lottare a favore della Gerusalemme araba.
Oppure gli Eco/Peace Friends of the Earth Middle East, hanno sede a Gaza, un budget di 400mila euro e l’obiettivo di abbattere la barriera di sicurezza israeliana.
Centinaia di migliaia di euro finiscono nelle tasche di Machsom Watch, che bolla Israele come “puro razzismo e crudeltà â€.
Il Palestinian Center for Human Rights ha 300mila euro e giustifica il rapimento di Gilad Shalit come atto di “resistenzaâ€.
“Pecunia non oletâ€, dicevano gli antichi. Ma la scia di denaro proveniente da Bruxelles e dai regimi islamici lascia un olezzo di odio e intolleranza.
One Response to Così i soldi degli islamisti e della Ue finiscono alle ONG nemiche d’Israele
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