Fonte:

Testata:Il Giornale – Panorama – La Stampa – Corriere della Sera – La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein – Magdi Allam – Maurizio Molinari – Pierluigi Battista – Robert Kaplan – John Lloyd
Titolo: «Ora l’Occidente mostri se ha coraggio – Le cautele israeliane su Teheran – Ma Mousavi non è un democratico – Risposta comune a Khamenei – Quando tutti scorderanno Teheran – Iraq, Iran e Corea del Nord: l’ 'asse del male' che non si sgretola -La lunga bat»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 29/06/2009, a pag. 8, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " Ora l’Occidente mostri se ha coraggio ". Da PANORAMA n° 26 del 26/06/2009, a pag. 96, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " Le cautele israeliane su Teheran " e, a pag. 104, quella di Magdi Allam dal titolo " Ma Mousavi non è un democratico ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Risposta comune a Khamenei ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 31, l'analisi di Pierluigi Battista dal titolo " Quando tutti scorderanno Teheran " e, a pag. 10, l'articolo di Robert Kaplan dal titolo " Iraq, Iran e Corea del Nord: l’«asse del male» che non si sgretola ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 4, l'analisi di John Lloyd dal titolo " La lunga battaglia tra Teheran e Londra ". Ecco gli articoli:

Analisi di Fiamma Nirenstein, Magdi Allam, Maurizio Molinari, Pierluigi Battista, Robert Kaplan, John Lloyd

Il GIORNALE – Fiamma Nirenstein : " Ora l’Occidente mostri se ha coraggio "

Fiamma Nirenstein

Fra poco, se da Teheran promanerà solo il silenzio e i ragazzi spariranno dai tetti e dalle piazze, sarà colpa nostra. Perché avremo fatto mancare loro la bandiera con la nostra mancanza di coraggio. Il leader di quei giovani non è Moussavi, né chiunque altro dal 12 giugno si sia atteggiato a difensore della loro libertà. Il loro leader, ovvero l’icona libertaria in cui essi si rispecchiano, su cui proiettano i loro desideri, la parte da cui deve venire lo squillo di tromba, siamo noi. È il nostro modo di vivere arioso che li guida, i luoghi di lavoro misti, energici e frenetici, le serate dell’estate cittadina al concerto, i ragazzi e le ragazze che camminano allacciati, le palestre, le donne con le maniche corte e la gonna al ginocchio, l’aperitivo, le letture, i film, la musica. La libertà di andare per la strada preferita, di «leggere Lolita a Teheran». Siamo anche, ai loro occhi carichi di utopia, quelli che sanno far funzionare l’economia, redistribuire la ricchezza, buttar giù inflazione che là è al 30 per cento e la disoccupazione, a più del 20 per cento. Moussavi non è mai stato per la rivolta democratica e liberale. La sua storia di clerico promotore del programma atomico è nota. Semmai Zahra, sua moglie, una voce femminile nel buio di una società in cui la donna non ha volto, ha fatto la differenza. Ma se noi occidentali siamo l’idealtipo della rivoluzione iraniana, siamo anche responsabili del suo andamento: e in queste ore di ripiegamento i ragazzi di Teheran devono essere molto tristi, anzi, disperati e anche stupiti perché siamo un leader in stato di choc, arreso, impaurito. Sanno che Ahmadinejad e Khatami ci vedono già piegati, e sentono piegarsi anch’essi le ginocchia. Li abbatte, quanto la repressione fisica, il G8 della prudenza, perché l’Europa condanna a mezza bocca ma non sanziona, Miliband tuona per i suoi otto impiegati imprigionati ma non richiama l’ambasciatore, Solana ripete di non volere interferire negli affari interni dell’Iran anche se non gli piace la repressione e promette di riprendere i colloqui sul nucleare, mentre Obama alza appena il tono dopo giorni fatali di silenzio; ed è logico dunque che Ahmadinejad stringa gli occhi infuriati e minacci di nuovo gli Usa e l’Europa accusandoli di intromissione mentre Ahmed Khatami dice, galvanizzante suggerimento concettuale, che allo slogan «abbasso l’America» bisogna aggiungere «abbasso l’Inghilterra». Nelle stesse ore, non a caso, Moussavi disdice le manifestazioni, dagli ospedali le Guardie della Rivoluzione trascinano via i feriti verso il carcere e la tortura. Abbiamo saputo fino dalle prime ore di questa rivoluzione quanto era importante l’Occidente per la gente in piazza: non per dare un aiuto materiale consistente, che per decenni i dissidenti hanno aspettato invano. È lo spirito che è mancato fin dai primi momenti, quelli in cui ancora Obama credeva – e si vede che non ha gli esperti giusti – che lo scontro mettesse in piazza la gioventù dorata di Teheran e si trattasse, quanto ai leader, di un breve contrasto interno. La verità è che la rivoluzione è basilare, radicale, e non c’entra con i leader in campo. I leader iraniani, come scrive Amir Taheri, sono spaccati a metà ovunque, ma sempre dentro il regime islamista fino al collo. Oggi hai con l’opposizione Montazeri, Moussavi, Youssef Sanei… e con Khamenei invece trovi, guarda un po’, nello scontro di potere insieme a tanti altri, persino Khatami. Nell’esercito il generale Ali Fazli, capo del Corpo Islamico Rivoluzionario militare più duro, è stato destituito per essersi rifiutato di attaccare la folla; il capo stesso del programma nucleare, Gholam Reza Aghazadek, è all’opposizione. Nell’Alto Consiglio della Difesa Nazionale così come nell’Assemblea degli Esperti, quella che ha il potere di destituire Khamenei, la divisione è casuale e durissima. Ma una cosa è chiara: ambo le parti vogliono conservare il regime. La stella polare è fuori, siamo noi, il leader siamo noi. Ma non abbiamo un messaggio, non crediamo in noi stessi, ed è il nostro silenzio che li perderà. Reagan alla Porta di Brandeburgo gridò a Gorbaciov: «Butta giù questo muro». Gorbaciov dovette ascoltarlo.
www.fiammanirenstein.com

PANORAMA – Fiamma Nirenstein : " Le cautele israeliane su Teheran "

Benjamin Netanyahu

Israele cammina sul filo. Il maggiore di tutti i suoi problemi modifica il suo profilo, ha un esito misterioso: nessun commentatore è in grado di prevedere cosa diverrà, una volta che le armi tacciano e le folle si ritirino dalle piazze, l'Iran dell'attuale rivoluzione postelettorale. E Israele, che fino a ieri aveva impostato l'insieme della sua politica internazionale, compresa la prospettiva di pace con i palestinesi, su una sostenuta politica anti nucleare iraniano, si riposiziona. La parola d'ordine è: cautela. Pare che essa venga direttamente dalla Casa Bianca, che avrebbe ispirato il tono decisamente sobrio di Benjamin Netanyahu sulla questione iraniana in genere durante il famoso discorso di Bar Ilan, due domeniche or sono. Bibi ha sottolineato, certo, il pericolo iraniano, ma ha lasciato che le prospettive di pace con i palestinesi occupassero il centro del palcoscenico retorico. Il messaggio è: noi non ci sbracciamo per l'opposizione democratica, come del resto anche Obama, e la piazza di Teheran non è ispirata da un complotto filooccidentale. Un atteggiamento che tuttavia si è un po' modificato quando Bibi ha detto: «Là sta accadendo qualcosa di molto profondo, di fondamentale, si nota fra la gente un gran desiderio di libertà». Ma non si tratta ancora di sostegno aperto alla rivolta, e molti considerano miope il mancato aperto sostegno alla piazza. Del resto, i repubblicani negli Usa hanno la stessa posizione su Obama. Per sostenere la necessità di un aiuto israeliano ai rivoltosi, l'analista Caroline Glick scrive che gli iraniani in generale non condividono l'odio per Israele e gli ebrei della leadership. E che negli anni gli oppositori (dagli studenti alle femministe, dai curdi agli azeri, dagli arabi ahwaz ai baluci) hanno tutti cercato il supporto israeliano. La radio israeliana in farsi ha i milione di ascoltatori al giorno. Dunque, un aperto sostegno potrebbe aprire la strada almeno a un dibattito interno in cui Israele ha un molo positivo. Gli occhi d'Israele restano comunque puntati sulla bomba. E tutti concordano nel dire ciò che anche Obama ha sostenuto. E cioè che Mahmoud Ahmadinejad e Hossein Mousavi non sono diversi sia per la devozione a un regime teocratico sia per la determinazione ad arricchire l'uranio. Dunque la base della politica israeliana resta: evitare che l'Iran realizzi la bomba. Anche la recente visita di Netanyahu a Roma ha centrato il dialogo con il govemo italiano sul contenimento del pericolo atomico, anzitutto tramite sanzioni, e, in caso non funzionassero, su un eventuale intervento militare. Ma il lavorio israeliano porta un titolo: rallentare. Il ministro della difesa Ehud Barak si è limitato a notare, durante un'intervista al Paris Air Show, che «Mousavi non sarebbe stato eletto alla Knesset o come governatore del Maryland, anche lui è un fondamentalista». Meir Dagan, capo del Mossad, durante la sua audizione alla Knesset ha espresso scetticismo sulla possibilità che la rivoluzione si trasformi in un cambiamento di regime (mentre Aman, i servizi militari, la pensano diversamente), ma soprattutto fra lo stupore generale ha previsto la bomba atomica iraniana per il 2014. Finora, com'è noto, Israele, con documenti più pessimisti di quelli americani, la prevedeva al massimo per l'anno prossimo. Ora si precisa che Dagan non ha contraddetto le precedenti informazioni: il 2010 resta l'anno del «non ritorno». Il 2014 disegnerebbe l'anno del completo assemblaggio di una testata nucleare trasportabile da un missile. Tuttavia l'effetto psicologico di una data più lontana è chiaro: calma, sembra dire Dagan, abbiamo ancora tempo. Ovvero: stiamo a vedere come va la rivoluzione.
www.fiammanirenstein.com

PANORAMA – Magdi Allam : " Ma Mousavi non è un democratico "

Magdi Allam

Se l'opinione pubblica mondiale condanna fondatamente il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come il nuovo Hitler a capo di un regime nazi-islamico perché, violando le risoluzioni dell'Onu, persegue l'obiettivo di dotarsi della bomba atomica e reitera la volontà di annientare Israele, facciamo attenzione a non cadere nella trappola, sotto l'impulso di una spinta da tifoseria calcistica, a nobilitare automaticamente e acriticamente il suo rivale Mir Hossein Mousavi, concedendogli l'aureola del leader democratico, liberale e pacifico. La verità è che sia Ahmadinejad sia Mousavi sul nucleare e su Israele la pensano sostanzialmente allo stesso modo e la differenza, per ammissione dello stesso Mousavi, è puramente formale. In un'intervista rilasciata alla rete televisiva araba Al Jazeera l'11 giugno scorso, il cui testo è reperibile sul suo sito ufficiale (http://www.mir-hosseinmousavi.com/policies.html), alla domanda: «In Occidente molti (anche tra la gente comune) hanno paura che l'Iran abbia intenzione di distruggere Israele, o, come è stato detto, spazzare Israele dalla carta geografica », Mousavi ha risposto: «Fin dall'inizio ho disapprovato questa frase. Noi crediamo nella sovranità del popolo. Guardi a cosa è accaduto in Sud Africa e in Rhodesia. Il popolo ha votato e cambiato il sistema. La sola via d'uscita è di rimettersi ai veri abitanti della Palestina». Significa che Israele, al pari della minoranza bianca del Sud Africa e della Rhodesia, è destinato a essere spazzato via dai «veri abitanti della Palestina», cioè dai palestinesi che da sempre rappresentano Israele come una potenza coloniale da cui bisogna affrancarsi con tutti i mezzi, compreso il terrorismo che ha, non a caso, nella teocrazia iraniana il suo principale sponsor mondiale. Così come alla domanda di Al Jazeera: «Ci sarà mai una situazione in cui il programma nucleare sarà fermato?», Mousavi ha risposto: «Ciò che l'Occidente dovrebbe sapere è che ci sono certe cose in cui essi possono sperare e certe cose in cui non possono. Ci in cui essi non possono sperare è che l'Iran abbandoni la tecnologia. Questa è una conquista nazionale ed è in linea con il nostro interesse nazionale e tutto il popolo dell'Iran lo appoggia. Ciò di cui possiamo parlare a livello internazionale è se devieremo verso lo sviluppo di armi nucleari». Significa che Mousavi mai e poi mai accetterebbe di porre fine al programma di arricchimento dell'uranio in corso e che potrebbe, ma solo come mera ipotesi, considerare dei negoziati sulla prospettiva del possesso della bomba atomica senza tuttavia mettere in discussione il diritto a dotarsene. Ebbene, proprio nelle scorse settimane il direttore dell'Aiea (l'agenzia dell'Onu per l'energia atomica) Mohamed EI Baradei ha ammesso esplicitamente che l'obiettivo dell'Iran è il possesso dell'atomica, il capo dei servizi segreti israeliani ha ammonito che l'iran avrà la bomba nucleare entro il 2014 e il ministro della Difesa Ehud Barak ha chiarito che non resta molto tempo per impedire questa sciagurata prospettiva. E l'Occidente che fa? Pur di preservare i suoi cospicui interessi economici, continua a dialogare con Ahmadinejad e a tifare per Mousavi, senza entrare nel merito dei contenuti, continuando a non voler vedere, a non voler sentire e a non voler parlare.

La STAMPA – Maurizio Molinari : " Risposta comune a Khamenei "

Maurizio Molinari

Il sequestro di otto dipendenti iraniani dell’ambasciata britannica, le accuse di interferenza rivolte da Mahmud Ahmadinejad a Barack Obama, l’appello dell’ayatollah Ahmed Khatami a «giustiziare i rivoltosi» e la repressione asimmetrica dei manifestanti da parte dei miliziani islamici suggeriscono che è iniziato il secondo atto del «golpe di Ali Khamenei», come l’iranista Mehdi Khalaji del Washington Institute ha definito l’esito ufficiale del voto presidenziale iraniano.
Se il primo atto ha visto Khamenei, Leader Supremo della rivoluzione, assegnare a Ahmadinejad la vittoria presidenziale prima di ultimare il conteggio delle schede, respingere la richiesta dello sfidante Mir Hossein Mousavi di rivotare e mobilitare le forze del ministero dell’intelligence e dei basiji per impedire ai manifestanti di insediarsi in una o più piazze della capitale come riuscì agli studenti cinesi a Tienanmen, il risultato è una stabilità assai precaria. Da qui la necessità di un secondo atto con il quale Khamenei punta a chiudere la crisi liquidando ogni opposizione.
La parte militare avviene nelle strade di Teheran dove i cecchini dei pasdaran sparano dai tetti e i basiji in tuta nera aggrediscono i manifestanti picchiandoli con i manganelli.

Non c’è uno scontro unico, palese, non ci sono blindati o tank ma una galassia di episodi di microrepressione che, accompagnati da arresti notturni e detenzioni segrete, dimostrano come sia possibile adoperare le tecniche della guerriglia asimmetrica contro la popolazione civile, al fine di terrorizzarla. Per Bruce Reidel, consigliere di Obama sull’intelligence, questa miscela di intimidazione e violenza può portare a uno «scenario fumoso» dove le proteste finiscono ma il regime resta vulnerabile alle liti intestine.
È per questo che venerdì il Leader Supremo ha affidato a Ahmed Khatami, fra i capi islamici più oltranzisti, il discorso in cui chiede la pena di morte per i responsabili dei disordini: la minaccia punta ad accomunare i manifestanti pro Mousavi con gli esponenti del clero conservatore khomeinista che li sostegnono. E per questo Hashemi Rafsanjani, ex presidente e khomeinista della prima ora, si è affrettato a chiedere di «superare le divisioni fra noi»: sente arrivare il pericolo di un’epurazione interna della quale potrebbe essere la prima vittima per l’appoggio che ha finora dato a Mousavi.
Tanto la repressione della piazza composta dai giovani riformisti, quanto l’azzeramento dalla nomeklatura inaffidabile hanno bisogno di un forte collante ideologico, e Khamenei lo ha facilmente trovato additando all’odio collettivo l’esistenza di presunti complotti stranieri. Per questo Ahmadinejad ha denunciato le «interferenze» dell’America di Obama, della Gran Bretagna e del «regime sionista» e, neanche 24 ore dopo, i miliziani islamici le hanno avvalorate arrestando otto dipendenti civili dell’ambasciata britannica accusandoli di essere spie.
Il secondo atto di Khamenei sarà completo quando i servizi di intelligence, che rispondono alle direttive del figlio Mojtaba, renderanno pubblici i nomi di coloro che hanno partecipato ai presunti «complotti», dando il via all’eliminazione degli avversari. Il fine è di trasformare la sconfitta dell’onda verde di Teheran nell’occasione per blindare la Repubblica Islamica, anche al prezzo di trasformarla in un regime autoritario. «Ma è un grave errore pensare di poter tornare indietro – osserva Suzanne Maloney, coautrice del rapporto della Brookings Institution sul dopo-proteste – perché nulla sarà più come prima dopo quanto è avvenuto».
Nasce qui la necessità per gli Stati Uniti e l’Europa di ridisegnare l’approccio all’Iran frutto del «golpe di Khamenei». L’imminente summit del G8 all’Aquila offre l’occasione di assumere una posizione comune con la Russia, che alla riunione ministeriale di Trieste ha già fatto capire di voler essere prudente. Ciò che è in ballo è la scelta che il Gruppo di contatto sull’Iran (composto da Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dovrà fare circa il riprendere o no il negoziato con l’Iran sul congelamento del programma nucleare. Quanto detto ieri al talk show della Nbc Meet the Press da David Axelrod, consigliere di Obama, su «Khamenei responsabile della politica estera», lascia intendere che Washington pensi di ricominciare la trattativa, mentre la dura condanna della repressione da parte di Nicolas Sarkozy suggerisce che Parigi sia di differente opinione.
Quale che sia l’esito del confronto in atto tra le maggiori potenze, ciò che conta è riuscire a dare in fretta una forte risposta comune alla svolta di Khamenei. Anche perché lo scenario di un Leader Supremo onnipotente dotato di armi nucleari sta mandando in ebollizione il Medio Oriente: la stampa saudita gli rovescia contro accuse infuocate, mentre l’aviazione di Gerusalemme avrebbe confezionato una nuova versione del raid aereo, per il quale basterebbero appena otto jet.

CORRIERE della SERA – Pierluigi Battista : " Quando tutti scorderanno Teheran "

Pierluigi Battista

Quando l’ordine regnerà a Teheran, scompari ranno dai computer del mondo i nastri verdi di solidarietà e i giovani iraniani che hanno osato insorgere contro la tirannia sentiranno, come al solito, il silenzio dell’Occidente. Come i monaci birmani, abbandonati a se stessi dopo che il pianeta si era infervorato per l’arancione della loro ri volta mite. Come i giovani che vent’anni fa sfidarono i carri armati sulla Tienanmen, in balia di un regime che fa a brandelli i diritti umani anche quando i media, i governi, le potenze economiche si occupano d’altro. Si accorgeranno che solo la piazza crea un brivido interna zionale, perché l’attenzione del mondo torna a sonnec chiare quando gli oppositori vengono malmenati e cat turati casa per casa. Al chiuso. Al buio. Nel silenzio.
Quando l’ordine regnerà a Teheran solo in pochi proveranno disgusto per ciò che accade da decenni or mai: le forche erette nelle pubbliche piazze iraniane, i cadaveri appesi, i guardiani del regime tutt’intorno a inneggiare all’applicazione della legge divina che pre scrive i castighi più atroci.
Nessuno si accorgerà della norma che impone alle ragazze la maggiore età a nove anni, per rendere lega le il ratto delle bambine da parte di mariti predoni e la pratica dei matrimoni forza ti. O l’abituale lapidazione delle adultere. La censura dei libri pericolosi. I rastrel lamenti notturni nelle case degli studenti universitari che hanno osato opporsi al l’integralismo fanatico dei mullah. I pasdaran con i ba stoni che picchiano e sevizia no le donne che lasciano scoperto qualche centimetro di troppo del loro corpo. La amputazioni della mani dei prigionieri. L’ordinaria violenza descritta da Nazar Afisi e sinora interiorizzata dalla società iraniana come un'abitudine che segna la normalità del regime difeso con crudeltà assoluta dai guardiani della fede e della rivoluzione.
Quando l’ordine regnerà a Teheran e gli energume ni in nero sulle loro moto minacciose avranno svuota to le strade occupate dai coraggiosi della rivolta ver de, è possibile che negli stati profondi della società iraniana qualcosa sarà cambiato per sempre e le guar die della dittatura dovranno faticare molto perché tut to torni alla plumbea normalità. È possibile che una crepa si sia aperta in modo irreversibile nel muro del regime teocratico.
Ma i giovani che si sono ribellati all’imbroglio sapran no di poter contare solo su se stessi e misureranno la passione effimera di un’opinione pubblica che ama emozionarsi per le piazze in fermento ma non sa imma ginare le storie di quotidiana ferocia che scandiscono in Iran la vita normale. Si chiederanno dove siano scappati i loro coetanei dell’Occidente che non rispondono più su Facebook o su Twitter, i nastri verdi oramai scoloriti.

CORRIERE della SERA – Robert Kaplan : " Iraq, Iran e Corea del Nord: l’«asse del male» che non si sgretola "

Robert Kaplan

Bush dichiarò che i regimi di Iraq, Iran e Corea del Nord rappresentavano l’«asse del male» e mise gli Stati Uniti sul piede di guerra contro di loro.
In termini retorici, la frase fu un’invenzione di grande successo e venne rimbalzata incessantemente dai media. Ma in termini operativi, le conseguenze furono tragiche.
La frase aiutò Bush a raccogliere consensi per l’invasione dell’Iraq, che cancellò il male, incarnato dalla dittatura di Saddam Hussein, per sostituirlo — ahimè — con un male assai peggiore, l’anarchia, che ha fatto centinaia di migliaia di vittime tra gli iracheni e quattromila morti tra le forze armate americane. Per di più, il termine ha alienato la leadership iraniana, con la quale, a seguito dell’invasione americana dell’Iraq, era auspicabile instaurare un ravvicinamento funzionale, tenendo conto del fatto che l’Iraq è il nemico storico dell’Iran. Infine, la frase ha condotto a una politica controproducente che ha tagliato ogni possibilità di dialogo con la Corea del Nord, spingendo i rapporti tra i due Paesi in un vicolo cieco. Non avendo raggiunto alcun risultato con il rifiuto di qualsiasi approccio, l’America (ancora sotto Bush) è tornata al tavolo delle trattative cinque anni più tardi. E Kim Jong-Il non ha certo perso tempo e nel frattempo ha mandato avanti il suo programma nucleare che mira alla bomba atomica.
A che punto siamo oggi?
Tutti e tre i Paesi dell’«asse del male» continuano ad avere un peso determinante nell’evoluzione della strategia politica americana.
L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concentrato gli sforzi per migliorare il dialogo con Baghdad, Teheran e Pyongyang. Dal 2007 a questa parte, l’Iraq ha visto profilarsi una certa stabilità, per quanto tenue, e il governo Obama si preoccupa a ragione della sicurezza del Paese quando le truppe americane si ritireranno dalle città irachene nel corso dell’estate. Quanto all’Iran, una cosa è certa: il regime clericale antiamericano che Bush ha bollato come «canaglia» nel 2002 oggi è ufficialmente offuscato dal sospetto di illegittimità. Al momento, la minaccia rappresentata da un potenziale impero sciita, con il suo quartier generale in Iran, e l’appoggio di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina, ha spinto gli israeliani e i governi arabi sunniti a stringere una specie di alleanza. Tuttavia, se riuscirà a frenare l’impulso di israeliani e arabi sunniti a far causa comune, un miglioramento nelle relazioni tra America e Iran potrebbe generare quell’effetto positivo che Bush immaginava sarebbe scaturito dall’invasione dell’Iraq nel 2003: fare pressione sulle dittature arabe sunnite da cui provenivano i terroristi dell’11 settembre. Occorre tenere a mente che oggi solo il regime iraniano resta così ferocemente anti israeliano. I sostenitori di Mousavi non condividono tanto fervore e storicamente i persiani sono stati sempre consapevoli, in senso pragmatico, dell’effetto positivo di Israele quale leva contro gli odiati arabi sunniti. Sotto lo Scià, i rapporti tra Israele e Iran sono stati coltivati sempre mantenendo un basso profilo, ma sviluppando una collaborazione strategica di fatto. Si potrebbe assistere a un ripetersi di questa situazione.
Ciò non toglie che le relazioni tra America, Iran e Israele restano assai dinamiche e potrebbero subire svolte importanti negli anni a venire.
Altrettanto movimentata è la situazione in Corea del Nord. Il regime di Pyongyang, che tiranneggia una popolazione ridotta alla fame, non ha nulla da vantare oltre al test di un ordigno nucleare e pertanto rappresenta una minaccia ben più concreta per la Cina che per l’America. La Cina potrebbe decidere di ignorare le bizzarrie di Kim Jong-Il e restare a guardare, mentre Giappone e Corea del Sud si affannano a rafforzare le loro strutture difensive, al punto da optare forse per le armi nucleari. Ma la Cina certo non gradisce un Giappone e una Corea del Sud militarizzati che possano sfidare il potere di Pechino nel Pacifico. D’altro canto, se dovesse tentare di scardinare la Corea del Nord in modo decisivo, la Cina rischia di mandare all’aria il regime di Kim. E la fine della tirannia nordcoreana produrrebbe milioni di profughi che dalle frontiere del nord si riverserebbero in Cina.
L’America sta facendo pressione sulla Cina affinché adotti un atteggiamento più severo con la Corea del Nord, ma i cinesi non hanno bisogno di ammonimenti da parte degli Usa: sanno benissimo che cosa occorre per rimettere in riga Kim, ma ne temono le conseguenze. Oggi assistiamo a profondi sconvolgimenti in atto nei regimi di Iran e Corea del Nord e nei prossimi anni potremmo assistere al completo sgretolamento dell’asse del male. Come nel caso dell’Iraq, tuttavia, è assai improbabile che questi Paesi sappiano ritrovare nel breve periodo la strada della stabilità.

La REPUBBLICA – John Lloyd : " La lunga battaglia tra Teheran e Londra "

Le potenze straniere – ha dichiarato la settimana scorsa il Leader Supremo dell´Iran in un discorso rivolto ai basiji, ovvero le milizie dei volontari – stanno complottando contro l´Iran per minimizzare l´importante risultato raggiunto: l´instaurazione di uno Stato teocratico.
A suo dire il peggiore di questi Stati, il più perfido, il più diabolico, "il più infido" è …la Gran Bretagna. Le fila serrate dei basiji hanno ruggito in segno di approvazione, facendo con le braccia una sorta di saluto vagamente fascista.
Gli analisti hanno in seguito spiegato che all´origine della scelta di Khamenei potrebbe esserci la motivazione che intende tenere l´uscio aperto nel momento in cui gli Stati Uniti stanno cercando di esprimere energicamente la loro disapprovazione per il risultato elettorale e la repressione dei manifestanti, ma non a tal punto da rendere impossibile rompere il ghiaccio tra i due Paesi. Per questa e altre ragioni la Gran Bretagna è considerata un comodo surrogato dell´America.
Ma ciò non basta: Iran e Gran Bretagna hanno un passato nonché un presente che spiega ancor meglio le cose. E spiega anche perché aver definito i britannici "i più infidi" ha provocato la reazione particolare della folla che ascoltava il discorso di Khamenei.
I primi contatti tra i due Stati, risalenti al XVI e al XVII secolo, furono produttivi: i mercanti e i soldati britannici aiutarono la dinastia dei Safavidi al potere, instaurando proficui rapporti commerciali e studiandone la cultura. Nei due secoli seguenti, tuttavia, quando il potere della dinastia dei Quajarid provocò caos e subbugli nella popolazione, la Persia – come si chiamava allora – divenne il terreno di scontro di due imperi in concorrenza tra loro, e la casa regnante si trovò costretta a fare concessioni sempre più umilianti. Una per tutte quella nei confronti del Barone de Reuter (fondatore dell´agenzia di stampa), talmente onerosa da attirarsi molta ostilità da ogni settore della società persiana, al punto da essere revocata. I Quajarid nel 1921 persero il potere e furono sostituiti da Reza Pahlavi, aiutato dai britannici a conquistare il trono, prima di essere deposto durante la guerra. Suo figlio Reza Pahlavi II fu aiutato a restare al potere dai britannici fino alla fine degli anni ‘70, benché il suo Primo ministro Mohammad Mossadegh fosse stato allontanato dai servizi segreti britannici che lavoravano insieme alla Cia. Lo scià, alla fine, fu destituito dalla Rivoluzione islamica che portò l´ayatollah Khomeini al potere nel 1979. L´anno seguente la Gran Bretagna chiuse la propria ambasciata a Teheran, poi riaperta nel 1988.
Buona parte delle interferenze britanniche avvennero dunque quando l´impero era al massimo della sua potenza: negli ultimi trent´anni la Gran Bretagna è stata più vittima che colpevole. Il caso Rushdie nel 1989 – l´autore britannico nei confronti del quale l´Ayatollah Khomeini decretò una fatwa, ovvero una condanna a morte, per i suoi blasfemi Versetti Satanici – diede ai rapporti tra i due Paesi una nuova svolta verso il basso: le relazioni diplomatiche rimasero ridotte al minimo per tutti gli anni ‘90, durante i quali il governo britannico arrivò ad accusare l´Iran di aiutare i terroristi dell´Ira. Per due volte da allora il governo di Teheran ha arrestato dei marinai britannici – nel 2004 e nel 2007 – con il pretesto che stessero navigando in acque iraniane. Benché ci siano state visite periodiche a livello ministeriale e vari tentativi di aprire dei colloqui sul terrorismo, le relazioni tra i due Paesi restano poco più che freddi.
Così, per esempio, la strada un tempo intitolata a Winston Churchill – e tuttora così chiamata dai tassisti – è stata dedicata a Bobby Sand, il terrorista dell´Ira che si è lasciato morire di fame in prigione in segno di protesta contro il governo britannico. E sempre per la stessa freddezza di rapporti, l´eroe di un romanzo anti-britannico si chiama "Zio Napoleone" e così sono anche spesso soprannominati i britannici in genere.
Il passato influisce ancora pesantemente sulla visione che i leader e i sostenitori del regime iraniano hanno della Gran Bretagna: ma è chiaro che gli eventi odierni sono sfruttati da loro anche per sostenere la loro opposizione. Il più importante di questi casi è stata la costituzione, nel gennaio di quest´anno, del Servizio in lingua farsi della Bbc World Service, un servizio finanziato, come tutti gli altri della Bbc World Service, da un fondo del dipartimento britannico degli Affari Esteri (nello specifico 15 milioni di sterline l´anno). Molti iraniani avevano chiesto trasmissioni della Bbc nella loro lingua, affermando di non potersi fidare dell´unica altra emittente esistente, quella dello Stato iraniano.
Ma il regime, naturalmente, non la pensa in questi termini: per la leadership di Teheran, i notiziari trasmessi da fuori dall´Iran, per di più dalla Gran Bretagna, e finanziati dal Foreign Office britannico sono per definizione e per natura "infidi", in quanto cercano di istigare la popolazione a ribellarsi contro le autorità. Per i teocrati iraniani, come per molti altri, del resto, è inconcepibile che simili trasmissioni non siano naturalmente una mera forma di propaganda britannica anti-iraniana, e le rassicurazioni che si tratta di notiziari obiettivi li lasciano interdetti, come se fossero assurdità.
Il governo britannico ha cercato di imitare il comportamento di Barack Obama, che ha relativamente mitigato le sue critiche nei confronti del regime di Teheran. Ma questo non conta: l´arresto ieri di iraniani che lavoravano per l´ambasciata britannica dimostra quanto le ostilità si stiano aggravando. Le nazioni, come anche i singoli individui, del resto, possono sicuramente non prendere in considerazione la loro storia e il loro passato, ma la storia delle relazioni britannico-iraniane è uno strumento troppo comodo perché il regime di Teheran sia disposto a rinunciarvi.

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.