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[b]Fiamma Nirestein
Panorama, 20 marzo 2009[/b]

C’è un piccolo particolare che non funziona nelle trattative fra Hamas e Al-Fatah per tornare a governare insieme: la prima organizzazione non intende rinunciare al suo punto programmatico principale, la distruzione di Israele, anzi intende distruggere anche l’Olp, di cui Al-Fatah di Abu Mazen è il cuore politico. L’ha detto il 28 gennaio il suo leader Khaled Mashaal in Qatar e nessuno l’ha smentito. Le due fazioni palestinesi rivali nel dialogo mediato dall’Egitto sono riuscite a dichiarare in coro che vogliono le elezioni nel gennaio del 2010, ma sul resto, salvo che sul fatto che con la riunificazione sarebbe più facile ottenere la gestione dei 5 miliardi di dollari donati per la ricostruzione di Gaza dal consesso internazionale, non c’è né accordo né simpatia.

Non c’è neppure dentro Al-Fatah, o fra l’Hamas all’interno della Striscia e quella all’esterno, ovvero Khaled Mashaal, che sotto il diretto controllo iraniano siede a Damasco. Basta uno sguardo dentro Gaza per vedere che, nella confusione del riassetto postbellico, il primo ministro Ismail Haniyeh è circondato da un’opinione pubblica che ha pagato la politica di Hamas con oltre 1.000 morti e vorrebbe almeno vedere il ritorno a casa dei prigionieri, su cui si tratta in cambio del soldato Gilad Shalit, in cattività da quasi tre anni. Si parla di liberare ben 750 prigionieri, forse anche 1.000, molti, come si dice in Israele, con le mani macchiate di sangue.
Eppure, il soldato Shalit è il cuore della società israeliana. Dunque si procede, ma su alcuni nomi Israele proprio non ci sta. E Mashaal da Damasco ha ostentato un volto da poker anche mentre la trattativa s’identificava con la conclusione del mandato di Ehud Olmert, perché il prossimo premier israeliano Benjamin Netanyahu è ritenuto molto meno disponibile.
Al-Fatah a sua volta è spaccata: quando Salam Fayyed, il primo ministro, si è dimesso, sostenendo di voler così lasciare la strada libera a un governo di unità nazionale che la sua figura di tecnocrate filoccidentale ostruiva, tutta la Cisgiordania ha sorriso. I palestinesi sanno che Fayyad, ritenuto da Hamas poco meno che una spia degli americani e degli israeliani, può costituire un pegno da parte di Al-Fatah. Ma non ignorano la seria spaccatura esistente fra Abu Mazen e Fayyad.
Il primo è il rappresentante della vecchia guardia, memoria storica dell’intifada. Il secondo, faccia nuova con ambiguità notevoli (fra cui quella di non disdegnare il consenso dei gruppi duri, solo teoricamente disarmati da Abu Mazen), calamita tuttavia, con la sua fama di tecnocrate trasparente, le speranza di pace.
Non a caso la briglia delle forze militari e di polizia addestrate dagli Usa in Giordania per aiutare l’Autonomia contro Hamas (P.A. National security force) è finita in mano a Fayyad. Invece Abu Mazen controlla la guardia presidenziale. Queste forze si alleano di volta in volta con altre milizie armate, che diventano minacciose o amichevoli a seconda delle circostanze: un difficile equilibrio. Inoltre Abu Mazen e Fayyad sono sostenuti da gruppi economici con interessi, si dice, anche nell’ambito della telefonia cellulare.
Data la confusione, l’incertezza, le pressioni iraniane, l’improbabile unità sostanziale, Hamas e Al-Fatah potrebbero negoziare un accordo temporaneo per gestire i 5 miliardi donati al Cairo. Perché i paesi del Golfo hanno già detto che, data l’inconciliabilità delle parti, apriranno un ufficio per gestire la ricostruzione in proprio. È un compromesso fra l’Arabia Saudita, che riconosce solo l’Autonomia, e il Qatar che, dalla guerra di Gaza, sta con Hamas

 

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