Risolvere il problema palestinese
di Daniel Pipes
Liberal 9 gennaio 2009
[b]Pezzo in lingua originale inglese: Solving the "Palestinian Problem"
La guerra di Israele contro Hamas solleva il vecchio dilemma: che fare dei palestinesi? Gli stati occidentali, incluso Israele, devono porsi degli obiettivi per riuscire a capire quale linea politica adottare nei confronti della Cisgiordania e Gaza.[/b]
[b]Innanzitutto, passiamo in rassegna ciò che sappiamo possa o non possa funzionare:[/b]
Controllo israeliano. Nessuna parte vuole il procrastinamento della situazione iniziata nel 1967, quando le Forze di difesa israeliane assunsero il controllo di una popolazione diversa a livello religioso, culturale, economico e politico, nonché ostile.
Uno Stato palestinese. Gli Accordi di Oslo del 1993 iniziarono questo processo, ma una tossica mistura di anarchia, estremismo ideologico, antisemitismo, jihadismo e dittature ha portato al totale fallimento palestinese.
Uno Stato binazionale. Vista la reciproca antipatia che intercorre tra le due popolazioni, la prospettiva di un congiunto stato israelo-palestinese (ciò che Muammar Gheddafi chiama "Israstina") è assurda, a quanto pare.
Se si escludono queste tre prospettive resta un solo approccio pragmatico, quello che ha funzionato abbastanza bene nel periodo 1948-67:
Condiviso governo giordano-egiziano: Amman governa la Cisgiordania e il Cairo governa Gaza.
Sicuramente, questo approccio da ritorno al futuro suscita poco entusiasmo. Non solo il governo giordano-egiziano era mediocre, ma resuscitare questo piano ostacolerà gli impulsi palestinesi, che sono nazionalisti o islamisti. Inoltre, il Cairo non ha mai voluto Gaza e ha respinto con veemenza la sua restituzione. Di conseguenza, un analista accademico accantona questa idea come: "un'evanescente illusione che riesce solamente ad offuscare scelte reali e difficili".
Non è così. I fallimenti di Yasser Arafat e di Mahmoud Abbas, dell'Autorità palestinese (AP) e del "processo di pace" hanno causato dei ripensamenti in Amman e Gerusalemme. In effetti, Ilene R. Prusher di Christian Science Monitor, nel 2007 aveva già rilevato che l'idea di una confederazione cisgiordana-giordana "sembra aver ottenuto consensi da entrambe le rive del fiume Giordano".
Il governo giordano, che nel 1950 annesse entusiasticamente la Cisgiordania e abbandonò le sue rivendicazioni solamente sotto minaccia nel 1988, dà segni di ripensamento. Nel 2006 Dan Diker e Pinchas Inbari per conto del Middle East Quarterly documentarono come "la mancata rivendicazione del controllo [da parte dell'AP] e il fatto che [essa] sia diventata un'entità politicamente vitale hanno indotto Amman a riconsiderare se una strategia di non-intervento nei confronti la Cisgiordania sia nei suoi primari interessi". La burocrazia israeliana si è altresì mostrata disposta ad accettare questa idea, chiedendo di tanto in tanto alle truppe giordane di entrare in Cisgiordania.
Disperando dell'autogoverno, alcuni palestinesi accolgono favorevolmente l'opzione giordana. Un anonimo funzionario dell'AP ha detto a Diker e Inbari che quella forma di federazione o di confederazione offre "l'unica soluzione ragionevole, stabile e a lungo termine al conflitto israelo-palestinese". Hanna Seniora ha opinato che "Le attuali prospettive svigorite per una soluzione a due stati ci costringono a rivedere la possibilità di una confederazione con la Giordania". Hassan M. Fattah del New York Times riporta quanto asserito da un palestinese che vive in Giordania: "Tutto è andato distrutto per noi. Sarebbe meglio se fossero i giordani a occuparsi della Palestina, se Re Abdullah assumesse il controllo della Cisgiordania."
E non è questa una voce isolata: Diker e Inbari riportano che i negoziati paralleli tra l'AP e i giordani del 2003-04 "sfociarono in linea di massima in un accordo che prevedeva l'invio di 3.000 membri della Forza Badr" in Cisgiordania.
E pur se il presidente egiziano Hosni Mubarak ha annunciato un anno fa che "Gaza non fa parte dell'Egitto, né lo sarà mai", la sua non è l'ultima parola. Innanzitutto, malgrado le parole di Mubarak, gli egiziani in massa desiderano avere un forte legame con Gaza; Hamas concorda e i leader israeliani talvolta sono d'accordo. Pertanto, la base per una revisione della linea politica esiste.
In secondo luogo, indubbiamente Gaza fa più parte dell'Egitto rispetto alla "Palestina". Durante la maggior parte del periodo islamico, essa era controllata dal Cairo ovvero faceva parte a livello amministrativo dell'Egitto. I residenti della Striscia di Gaza parlano un arabo colloquiale identico a quello parlato dagli egiziani del Sinai. A livello economico, Gaza ha il maggior numero di legami con l'Egitto. La stessa Hamas deriva dai Fratelli musulmani, un'organizzazione egiziana. È il momento di pensare agli abitanti della Striscia di Gaza come egiziani?
In terzo luogo, Gerusalemme potrebbe superare in strategia Mubarak. Se essa annuncerà una data in cui porrà fine agli approvvigionamenti idrici, all'erogazione di elettricità , alle forniture di cibo e medicinali, e ad altri scambi commerciali, il Cairo dovrebbe assumersi la responsabilità di Gaza. Tra gli altri vantaggi, ciò lo renderebbe responsabile della sicurezza degli abitanti di Gaza, mettendo definitivamente fine alle migliaia di razzi e di attacchi a colpi di mortaio.
L'opzione giordano-egiziana non vivifica alcun impulso, ma ciò potrebbe essere il suo pregio. Essa offre un modo eccezionalmente sensato per risolvere il "problema palestinese".
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