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Sul CORRIERE della SERA di oggi, 16/02/2008, a pag.17, due ritratti paralleli di Guido Olimpio, Meir Dagan , capo del Mossad, e Imad Mughniyeh, il capo terrorista di Hezbollah, morto a Damasco martedì sera. Dall' UNITA' di oggi, a pag.12, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Nayla Moawad , ministro libanese degli affari sociali.

Fonte:

Corriere della Sera, di Guido Olimpio:
La trama Il primo è il capo del Mossad. Il secondo era il «Bin Laden» di Hezbollah
Meir il cacciatore, l'«ingegnere» la preda Vent'anni di sfide e intrighi. Poi la trappola[/b]

[b]WASHINGTON[/b] — Il cacciatore ama la pittura, i viaggi in Estremo Oriente, la cucina italiana e «i capi terroristi morti». È la legge di Meir, Meir Dagan il capo del Mossad: per vincere il serpente devi tagliargli «la testa ». La preda amava la cucina libanese, il caffè palestinese, gli attentati e «i sionisti morti». Era la legge di Imad Mughniyeh, il capo dell'apparato clandestino dell'Hezbollah, dilaniato, martedì notte a Damasco, da una bomba. Due vite parallele segnate da intrighi, scontri, trappole mancate.
Un cammino di sangue che parte negli anni '80 quando Dagan comanda «Yakal», l'unità di intelligence che opera nella fascia di sicurezza. Vorrebbe fare concorrenza al Mossad, ma l'Istituto — come lo chiamano — resiste. Invece, dall'altra parte, Mughniyeh costruisce il suo poderoso apparato di militanti, spinge Israele nella palude libanese, muove i kamikaze diventando un pezzo insostituibile per l'Hezbollah.
Dagan si prende la sua rivincita nel 2002. L'allora premier Sharon, preoccupato dall'intifada e dalla sfida iraniana, chiede una svolta. Richiama in servizio Dagan, con il quale ha «lavorato» a Gaza, e gli affida il Mossad. L'ordine è preciso: azione. Sotto la precedente gestione di Ephraim Halevy — più diplomatico che spia —, il servizio era diventato tutto analisi e tecnologia perdendo, secondo i critici, la capacità di colpire a lungo raggio. La scelta di Dagan non convince i James Bond da scrivania: «Non è un uomo di intelligence, è troppo soldato».
Incurante dei giudizi, con in tasca l'approvazione di un uomo pragmatico e duro quale Sharon, il capo del Mossad manda in pensione oltre 200 agenti, intensifica il reclutamento di giovani di origini arabe per poterli meglio infiltrare nei Paesi vicini, crea quattro sotto-divisioni con l'obiettivo di incrementare le «operazioni sporche». Gli omicidi mirati. È così che il Mossad elimina alcuni rappresentanti Hezbollah in Libano e un qaedista coinvolto in un duplice attentato in Kenya. Azioni rese possibili dal lavoro di agenti di nazionalità libanese, diventati subito oggetto di una serrata caccia da parte dell'Hezbollah, che cerca di restituire il colpo. Mughniyeh recluta, con successo, beduini e cittadini arabi-israeliani, intercetta le comunicazioni, raccoglie dati importanti sugli obiettivi in Israele. Un network poi usato durante la guerra nel-l'estate del 2006. Dagan, più attento ai risultati che alle prudenze diplomatiche, amplia il fronte. Se l'apparato segreto di Mughniyeh ha potuto colpire in Argentina (per ben due volte), il Mossad doveva tornare a fare lo stesso. È così che nel settembre 2004 viene «terminato» Khalil, un importante dirigente del braccio armato di Hamas. L'agguato è organizzato a Damasco con modus operandi
identico a quello utilizzato per uccidere Imad: la bomba sotto il sedile dell'auto. Sull'omicidio Khalil circolano molte storie. Una vuole che il Mossad abbia agito insieme al Mukhabarat giordano. E anche per l'uccisione di Mughniyeh qualcuno ipotizza piste alternative visto che il leader Hezbollah era «sgradito» a molti regimi arabi. Kuwaitiani e sauditi in testa, per non parlare dei sunniti libanesi. Una ricostruzione sostiene che Imad sia arrivato a Damasco per incontrare Khaled Meshal, figura di spicco di Hamas, e questo abbia permesso di individuarlo. Compito non facile. Mughniyeh usava raramente il telefono, si spostava spesso da solo perché la «scorta » poteva tradirlo. Dicevano anche che neppure gli israeliani sapessero quale fosse il suo vero volto. Però, alla fine, qualcuno lo ha trovato. Magari una «talpa» in Siria o una delle Mata Hari con passaporto marocchino ingaggiate dal Mossad e diventate l'ossessione degli 007. Nabila, Asma, Nour. Metà amanti e metà spie, capaci di carpire segreti e di agganciare le persone giuste. Con gli islamisti — è l'obiezione— la trappola di miele, fatta di sesso e amori proibiti, non funziona. Figuriamoci con un guerriero temprato come Mughniyeh. Ma forse permette di arrivare a qualcuno che conosce un numero, un indirizzo. E in queste ore è possibile che le spie siano di nuovo al lavoro per scoprire chi ha preso il posto di Imad. Avranno promosso Talal Hamya, il maestro delle cellule in sonno? O Ibrahim Akil, il mago di quei missili che nell'ultimo conflitto sono diventati l'incubo di Israele? L'Hezbollah, secondo tradizione, non ne ha rivelato l'identità. Toccherà a lui preparare la vendetta e a Meir Dagan cercare di prevenirla.
Guido Olimpio

[b]Dall'Unità, di Umberto De Giovannageli:

NAYLA MOAWAD[/b] La ministra libanese degli Affari sociali: libertà e indipendenza sono alla base della rivoluzione dei Cedri, vogliamo rafforzare democrazia e stabilità
[b]«Difenderemo il Libano sovrano dalle mire di Damasco»
di Umberto De Giovannangeli[/b]
«Non permetteremo che il nostro amato Paese sia considerato un terreno di guerra dagli altri, che il destino del Libano sia legato a quello di Hamas in Palestina o a quello dell’Armata del Mahdi in Iraq, o alle mire del regime siriano che pretende di negoziare con Israele sui nostri cadaveri. Non permetteremo che il nostro futuro dipenda dagli interessi nucleari iraniani. Il Libano prima di tutto. Il popolo libanese, prima di tutto. È questo il messaggio che abbiamo lanciato da Piazza dei Martiri nel terzo anniversario del martirio di Rafik Hariri». È stata l’unica donna a prendere la parola davanti a oltre un milione di libanesi che hanno dato vita al grande raduno popolare dell’altro ieri a Beirut. Il suo è stato l’intervento più applaudito. Il Libano della speranza si riconosce nella determinazione di Nayla Moawad, cristiana maronita, ministra degli Affari sociali nel governo Fuad Sinora. Suo marito, René Moawad, fu eletto nel 1989 presidente del Libano per 17 giorni prima di essere assassinato con 250 chili di tritolo in circostanze che restano ancora oggi avvolte nel mistero.
Oltre un milione di libanesi hanno ricordato Rafik Hariri, l’ex premier assassinato tre anni fa. Qual è stato il segno politico di questa imponente manifestazione?
«Un segno di unità. E di determinazione nel voler difendere la nostra sovranità nazionale. Il popolo libanese è legato alle istituzioni che garantiscono la nostra libertà, in primo luogo alla Chiesa e al patriarcato maronita, in particolare al patriarca Sfeir, il padre dell’indipendenza nazionale. Noi non permetteremo che la Chiesa sia attaccata da chiunque e per conto del regime siriano».
Cosa ha unito la moltitudine pacifica di Piazza dei Martiri?
«La memoria e una scommessa sul futuro. La memoria di quanti, a cominciare da Rafik Hariri, hanno perso la vita per difendere la sovranità del Libano, la nostra dignità nazionale. E una scommessa su un futuro che sia fondato su quegli ideali di verità, giustizia, indipendenza che sono stati alla base della Rivoluzione dei Cedri, il grande e pacifico movimento di popolo che ha posto fine al protettorato siriano. In quella Piazza abbiamo rinnovato un patto di libertà, convinti che con la forza del diritto, pacificamente, democraticamente, noi vinceremo. Una cosa è certa: non permetteremo che il nostro destino sia legato al regime siriano».
Cosa significa per lei «vincere»?
«Significa rafforzare il Libano, non una sua componente etnica, politica, religiosa. Significa garantire la stabilità dello Stato, delle sue istituzioni. Significa lavorare per potenziare il nostro sistema democratico pluralista e libero. Sono queste le condizioni fondamentali, i pilastri per mantenere in vita, rafforzandolo, quell’equilibrio istituzionale delineato dagli accordi di Taif (l’intesa che portò alla fine della sanguinosa guerra civile libanese che segnò gli anni dal 1975 al 1990, ndr.). Vincere significa far prevalere le ragioni del diritto su quelle della forza, significa permettere al tribunale internazionale di fare piena luce e assicurare alla giustizia esecutori e mandanti dell’assassinio di Rafik Hariri come di tutti gli atti terroristici costati la vita a parlamentari, giornalisti, uomini dell’esercito e dei servizi di sicurezza, la cui "colpa" era di voler difendere l’indipendenza e l’integrità nazionale del Libano. Sono morti perché servitori fedeli dello Stato. E dietro questa interminabili sequela di attentati che hanno marchiato gli ulti tre anni cioè una sola mano, una sola regia: quella che si muove sull’asse Damasco-Teheran».
I leader dell’opposizione contestano alla maggioranza antisiriana di voler monopolizzare il potere.
«Sbaglia chi, anche in Europa, legge ciò che sta avvenendo in Libano come una contrapposizione tra maggioranza e opposizione, una cosa normale, fisiologica, in qualsiasi democrazia. Ma le cose, purtroppo, non stanno così…».
Qual è allora l’anomalia libanese?
«Qui siamo di fronte a una lotta tra due progetti agli antipodi: quello di chi propugna un Libano sovrano e indipendente, e chi intende fare del Paese un protettorato siro-iraniano».
Nell’immediato cosa significa «vincere» sul piano politico per il Libano di Piazza dei Martiri?
«Significa eleggere finalmente il nuovo presidente della Repubblica. Il che vuol dire eleggere immediatamente, senza ulteriori rinvii, il generale Michel Suleiman a capo dello Stato, sulla base dell’iniziativa della Lega Araba».

 

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