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[b]di Elena Loewenthal
19/01/2008, sulla STAMPA (Tuttolibri, a pag. VI)
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La Shoah non è degli ebrei. La storia non appartiene mai alle sue vittime, che non la fanno ma la subiscono: men che meno questo cataclisma dove tutto è capovolto. La Shoah non è storia del popolo ebraico, ne è il suo opposto: è la negazione di questa storia. E' lo stupro ch'essa subisce da parte delle storie altrui.

Il quadro corrosivo che Tova Reich disegna del cosiddetto «mercato della Shoah» ne Il mio Olocausto, un romanzo viziato forse dal gusto dell'eccesso e da un autolesionismo tipicamente ebraico, è surreale in un modo che sconcerta. Cerca con malizia l'effetto scenico. E' un sistema feroce, certo inadeguato eppure paradossalmente efficace per giungere al cuore della questione. Una questione tormentosa quanto mai altra, dove le parole inciampano, le sensazioni, tutte tremende, si aggrovigliano al primo tentativo di esprimerle, anche soltanto di articolarle dentro se stessi. E' il bisogno di rinnegare la Shoah, di dichiarare a chiare lettere che quella non è la nostra storia, ma il suo contrario. Che la soluzione finale è stato il tentativo, quasi riuscito, di cancellare una storia – non certo di disegnarla, seppure con un pennello impazzito. La storia ebraica non può far propria questa negazione. La rinnega, e con ciò sopravvive. Auschwitz non appartiene al suo cammino: è il luogo estraneo dove la storia ebraica non esiste più.
La Shoah non riguarda l'esperienza ebraica. Qui, il popolo d'Israele non ci ha messo altro che il silenzio di sei milioni di vittime. E le vittime non fanno la storia. Non hanno più la voce. Quando si rimprovera maliziosamente al popolo ebraico di «sfruttare» la Shoah, di farne mercato politico e morale, si dimentica una cosa fondamentale. Che la Shoah appartiene al resto del mondo, non agli ebrei. Che quella storia riguarda il resto del mondo: questo è lo scandalo comodo da ignorare. L'eccesso celebrativo che contorna la memoria dello stermino va rinfacciato, forse. Ma non agli ebrei, che ne sono gli estranei. Nella soluzione finale i figli d'Israele ci entrano soltanto da morti. Per la storia ebraica Auschwitz è la destinazione impossibile, là dove tutto si ferma. Questo, e nulla d'altro, racconta l'Album Auschwitz con le sue duecento fotografie, corredo iconografico delle morte. Il campo di sterminio è dunque il luogo più remoto, più straniero. Non ha un perché, non ha un prima né un dopo se non nel silenzio della fine. Come si fa a fare proprio un luogo del genere?
La Shoah sfugge drasticamente ad ogni fenomenologia della storia, divina o umana. L'esperienza ebraica, dalla Bibbia in poi, è segnata da una continua oscillazione fra caduta e riscatto. Alla schiavitù d'Egitto segue la libertà del deserto. Alla distruzione del tempio segue l'esilio, ma si costruisce l'attesa del futuro. Ogni tragedia ha la sua redenzione – con o senza Dio. La Shoah no. E' buio soltanto. Chi insinua che in cambio di quei morti il popolo ebraico abbia «ottenuto» lo Stato d'Israele, si sbaglia di grosso e basta un'occhiata alla cronologia dall'Ottocento in poi per rendersi conto che non esiste un rapporto di consequenzialità fra questi due eventi, soltanto una successione temporale.
Shoah in ebraico significa catastrofe: più che una parola è un sibilo basso, un insulto inaudito. La storia ebraica la rinnega perché vi trova «solo» innumerevoli morti, voci che mancano all'appello, luoghi cancellati per sempre. Persino il pensiero religioso ebraico fatica a «elaborare», ad interpretare. Solitamente loquace fino allo spasimo, disinvolto di fronte al più arduo paradosso, sente qui la lingua che s'allega ai denti. Non ha modo di incastonare la Shoah in alcun progetto trascendente, divino o diabolico che sia. Non c'è codice ermeneutico che regga davanti a questa sfida: il pensiero religioso incespica, ammutolisce come i propri morti, avverte l'estraneità assoluta di questa storia. Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il Melangolo 2005, pp. 50, e8) si trova costretto a far abdicare l'onnipotenza divina, di fronte a questo evento. Un assunto blasfemo, eppure necessario.
Anche l'etica d'Israele rinnega la Shoah. L'ebraismo è parco di perdono, ma non per grettezza o accanimento: tale gesto è infatti è strettamente legato al principio di responsabilità. Solo chi ha subìto personalmente un torto può esercitare la libertà di assolvere. Nessuno può arrogarsi il diritto di perdonare per conto terzi.
Marco Bouchard e Fulvio Ferrario in Sul perdono aiutano a districarsi in questa questione, fuor dell'odierna faciloneria. Ma, ancora una volta, l'impossibilità di perdonare al posto di sei milioni di persone che tacciono perché sono diventate fumo per le ciminiere di Auschwitz e degli altri campi sparsi per l'Europa, denuncia l'assurdità dello sterminio. Marca, attraverso il silenzio di un'afasia ineluttabile, il bisogno ebraico di rinnegare la Shoah. Di rispedire al mittente questa storia impossibile da concepire. Sei milioni di voci che non rispondono più, sei milioni di silenzi uno dopo l'altro. Questa non è la storia ebraica, è il suo contrario.

 

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