Palestinesi che preferiscono Israele
[b]di Daniel Pipes
Jerusalem Post
2 gennaio 2008[/b]
Pezzo in lingua originale inglese: Palestinians Who Prefer Israel
http://it.danielpipes.org/article/5321
I palestinesi hanno una lunga storia non manifesta di ammirazione nei confronti di Israele che contrasta con la loro meglio conosciuta consuetudine di diffamazione e irredentismo.
Negli ultimi tempi, questo aspetto è assai lampante, specie da quando il premier israeliano Ehud Olmert, nell'ottobre scorso, ha reso una dichiarazione volta a sondare l'opinione pubblica in merito al trasferimento all'Autorità palestinese (AP) di alcune aree a predominanza araba di Gerusalemme est. Come egli si è chiesto in modo retorico riguardo alle azioni israeliane del 1967: "Era necessario annettere il campo profughi di Shuafat, al-Sawahra, Walajeh e altri villaggi, e poi asserire che essi appartengono a Gerusalemme? Riconosco che possano sorgere alcuni interrogativi legittimi in merito a ciò".
Di punto in bianco, questa dichiarazione ha tramutato le testimonianze a favore di Israele, enunciate dai palestinesi (per un saggio di ciò, si veda un mio articolo del 2005 dal titolo "L'inferno di Israele è migliore del paradiso di Arafat"), da assunti teoretici in discorsi attivi e politici.
Per meglio dire, le riflessioni di Olmert hanno indotto ad alcune risposte belligeranti. Come chiosa il titolo di un pezzo apparso su Globe and Mail: "Alcuni palestinesi preferiscono vivere in Israele: a Gerusalemme est, i residenti dicono che si opporrebbero strenuamente alla decisione di passare sotto il regime di Abbas". L'articolo offre l'esempio di Nabil Gheit, dal quale ci si aspetterebbe una certa esultanza all'idea che settori di Gerusalemme est finiscano sotto il controllo dell'AP, visti i suoi due soggiorni nelle prigioni israeliani e i poster del "martire Saddam Hussein" affissi sopra il registratore di cassa del suo negozio.
Ma così non è. Come mukhtar di Ras Khamis, nei pressi di Shuafat, Gheit teme l'AP e asserisce che lui ed altri si opporrebbero a un trasferimento. "Se fosse stato indetto un referendum, nessuno avrebbe votato a favore dell'AP (…) Vi sarebbe stata un'altra intifada per difendere noi stessi dall'Autorità palestinese".
Due sondaggi resi noti la scorsa settimana da Keevoon Research, Strategy & Communications e dal quotidiano in lingua araba As-Sennara, condotti su campioni rappresentativi di adulti arabo-israeliani sulla questione dell'annessione all'AP, corroborano quanto asserito da Gheit. Alla domanda: "Preferiresti essere cittadino israeliano o di un neo-Stato palestinese?", il 62 per cento degli intervistati ha risposto di volere continuare ad avere la cittadinanza israeliana e il 14 per cento ha detto di voler far parte di un futuro Stato palestinese. Alla domanda: "Appoggeresti l'idea di trasferire il Triangolo [un'area a dominazione araba nel nord di Israele] sotto il controllo dell'AP?", il 78 per cento degli intervistati ha ricusato l'idea e il 18 per cento si è detto favorevole.
Non tenendo conto di coloro che hanno risposto "non so" e di coloro che si sono rifiutati di rispondere al sondaggio, le proporzioni degli intervistati favorevoli a rimanere in Israele quasi si equivalgono: rispettivamente sono l'82 e l'81 per cento. Gheit esagera a dire che "nessuno" desidera vivere sotto l'Autorità palestinese, ma non di molto. Sono migliaia i palestinesi residenti a Gerusalemme che per paura dell'AP hanno inoltrato richiesta di ottenere la cittadinanza israeliana, giacché la dichiarazione di Olmert corrobora ulteriormente il punto di vista di Gheit.
Quali sono i motivi che inducono a un simile attaccamento per uno stato che i palestinesi non fanno altro che vituperare davanti ai media, nel mondo della cultura, nelle aule scolastiche, nelle moschee e negli organismi internazionali, che essi terrorizzano quotidianamente? È meglio che siano essi stessi a spiegare le loro motivazioni nelle seguenti citazioni dirette:
Considerazioni finanziarie. "Non desidero far parte dell'AP. Desidero avere l'assicurazione sanitaria, le scuole, e tutte le altre cose che si hanno vivendo qui", asserisce Ranya Mohammed. "Andrò a vivere in Israele piuttosto che rimanere qui e vivere sotto l'AP, anche se ciò significa prendere un passaporto israeliano. Vedo quanto si soffre nell'Autorità palestinese. Godiamo di parecchi privilegi e non sono disposta a rinunciarvi".
Legge e ordine. I giornalisti arabo-israeliani Faiz Abbas e Muhammad Awwad osservano che oggi agli abitanti di Gaza "mancano gli israeliani, giacché Israele è più clemente [dei killer palestinesi], che non sanno perfino il perché si combattono e si uccidono gli uni con gli altri, al pari del crimine organizzato".
Allevare i figli. "Voglio vivere in pace e mandare i miei figli in una scuola regolare", dice Jamil Sanduqa. "Non desidero tirar su i miei figli insegnando loro a scagliare pietre oppure a imitare Hamas".
Un futuro più prevedibile. "Desidero continuare a vivere qui con mia moglie e mio figlio, senza aver timori per il nostro avvenire. Ecco perché voglio la cittadinanza israeliana. Non so cosa ha in serbo il futuro", spiega Samar Qassam, 33anni.
Altri esprimono delle preoccupazioni in merito alla corruzione, ai diritti umani e perfino all'autostima ("Quando gli ebrei parlano di barattarmi, è come se mi stessero negando il diritto di essere una persona").
Questi schietti punti di vista non ricusano il brutale antisionismo che regna in Medio Oriente, ma rivelano che quattro quinti di quei palestinesi che conoscono Israele in prima persona comprendono le attrattive di una vita decorosa in un paese decente, un dato di fatto che presenta importanti e positive implicazioni.
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