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[b]Dal GIORNALE del 29 agosto 2007, un articolo di Gian Micalessin[/b]

Altro che principî. Stavolta il presidente palestinese Abu Mazen e il primo ministro israeliano Ehud Olmert sono al cuore del problema. Non discutono più, come han fatto credere fino a ieri, di concetti vaghi e astratti, ma affrontano dilemmi cruciali come la questione dei confini, dei profughi e dell’eventuale ripartizione di Gerusalemme.

Mettono mano, insomma, ai punti più controversi e dibattuti, affrontano quegli argomenti fondamentali su cui da mezzo secolo si arena ogni negoziato. Le scadenze di Abu Mazen e Olmert sono invece di assai più breve respiro. Il massimo del tempo concesso loro scade alla vigilia dell’ipotetica conferenza sul Medio Oriente che la Casa Bianca, pur non avendo comunicato date precise, ipotizza di tenere in novembre.
Se entro quel termine non si sarà trovato un accordo la conferenza sul Medio Oriente salterà e Abu Mazen e Olmert dovranno rassegnarsi a seguire il presidente americano George W. Bush sulla strada della pensione. Meglio, dunque, mettercela tutta. Non a caso il summit di ieri, nella residenza del premier israeliano a Gerusalemme, si prolunga per 90 minuti e viene preceduto e seguito da incontri tra commissioni di alto livello. Stavolta, inoltre, Olmert e il suo entourage smentiscono poco o nulla. Ci tengono, anzi, a far capire che sono state affrontate e discusse in profondità la questione di Gerusalemme, quella dei confini e dei profughi palestinesi.

Le indiscrezioni riportate dal Jerusalem Post e da Al Jazeera si spingono molto più in là. Secondo il quotidiano israeliano, la svolta più interessante si sarebbe registrata nell’incontro tra le commissioni: quella israeliana presieduta dal vice premier Haim Ramon, alter ego di Olmert, avrebbe proposto una sorta di controllo ripartito tra ebrei, cristiani e palestinesi sui luoghi santi di Gerusalemme e offerto all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) la sovranità sui quartieri arabi nella zona orientale della Città Santa. Per l’immediato la commissione avrebbe proposto il ritiro dell’esercito, prima della conferenza di novembre, dai capoluoghi palestinesi di Ramallah, Nablus e Jenin che tornerebbero sotto il controllo delle forze palestinesi. Questa seconda offerta lascia perplessi molti osservatori. A tutt’oggi, infatti, l’esercito israeliano non ha ancora messo in pratica le misure di snellimento dei posti di blocco in Cisgiordania promesse da Olmert nel summit di Gerico dello scorso 6 agosto.

Al Jazeera, citando fonti palestinesi, ipotizza un accordo preliminare sui confini che seguirebbe il tracciato della frontiera del ’67 con l’unica eccezione della zona a ovest di Nablus dove verrebbero concentrati in un unico blocco gli insediamenti dei coloni. In cambio di questa penisola di colonie Israele riconoscerebbe all’Anp una pari estensione di territori nella zona del Negev. Entrambe le indiscrezioni non sono state confermate né dagli israeliani né dai palestinesi. Abu Mazen prima di arrivare a Gerusalemme ha però ribadito che la mancanza di un’intesa preliminare sulle questioni fondamentali renderebbe inutile e priva di significato la conferenza sul Medio Oriente. In particolare «limitarsi a una semplice dichiarazione di princìpi come proposto da Israele – aveva detto il palestinese – sarebbe una perdita di tempo». Lo stesso punto era stato rimarcato, qualche giorno fa, dal presidente egiziano Hosni Mubarak. Facile immaginare che Olmert si sia deciso, anche su sollecitazione della Casa Bianca, ad accelerare i tempi e a mettere un po’ più di carne al fuoco.

Da Gaza Hamas osserva con preoccupazione gli eventi. Se a novembre Olmert e Abu Mazen raggiungessero un minimo risultato, l’attuale isolamento rischierebbe di trasformarsi in una condanna a morte. Non a caso i commenti dei portavoce fondamentalisti somigliano sempre di più ad aperte minacce. «Abu Mazen si comporta come se lavorasse alle dipendenze di Olmert, ma così facendo – ha commentato pochi minuti prima del summit il portavoce integralista Fathi Ahmad – avvicina il momento della propria fine».


 

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