di Daniel Pipes
Israel Hayom
25 gennaio 2017

http://it.danielpipes.org/17296/paesi-arabi-israele-palestinesi

Pezzo in lingua originale inglese: The Three-Way Option: Arab States, Israel, Palestinians

Traduzioni di Angelita La Spada

Sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs, quello di gennaio-febbraio 2017, è apparso un articolo titolato “Come costruire la pace in Medio Oriente: Perché l’approccio bottom-up è meglio di quello top-down“, a firma dell’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon, un probabile futuro candidato premier. L’articolo contiene un’importante proposta su come porre fine al conflitto israelo-palestinese.

In sintesi, l’articolo di Ya’alon auspica (il grassetto è mio):Ya’alon fornisce un’ottima analisi dei motivi del fallimento di decenni di diplomazia e del persistente stallo diplomatico. Il suo approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, alla soluzione del conflitto israelo-palestinese, consta di quattro elementi, tre dei quali sono luoghi comuni alquanto obsoleti, mentre il quarto offre un’idea entusiasmante e nuova: l’opzione a tre vie, sulla quale mi soffermerò qui di seguito.

  1. “la promozione da parte dei palestinesi di una crescita economica e di uno sviluppo delle infrastrutture”;
  2. “il miglioramento della governance palestinese, della lotta alla corruzione e del quadro istituzionale in generale”;
  3. “la cooperazione israelo-palestinese in materia di sicurezza“;
  4. “un’iniziativa regionale che induca i paesi arabi interessati ad aiutare a gestire e alla fine a risolvere il conflitto israelo-palestinese – a prescindere che questi paesi abbiano o meno relazioni ufficiali con Israele”.
  1.  

Nel corso dei decenni si è ripetutamente tentato di dare concretezza alle prime tre proposte e non si è riusciti a giungere a una soluzione del conflitto:

  1. Nel 1993, Shimon Peres ha pubblicato il volume The New Middle East, caratterizzato dalla visione idilliaca di una popolazione palestinese prospera che abbia relazioni di buon vicinato con Israele. Il problema è che allora come oggi le sue speranze sono state infrante dal negazionismo palestinese, dall’incitamento all’odio e dal culto della morte. Nel 2017, certamente, nessuno ancora crede davvero che la prosperità renderà i palestinesi più moderati.
  2. Nell 2002, George W. Bush si è concentrato sull’obiettivo di migliorare la governance, ma quindici anni dopo la situazione è più desolante che mai, vista l’anarchia, la corruzione e l’ostilità violenta. Peggio ancora, i precedenti storici indicano che una buona governance porterebbe solo a una macchina palestinese più efficiente per attaccare Israele.
  3. La cooperazione in materia di sicurezza è un ambito – di fatto l’unico – in cui Israele e l’Autorità palestinese (Ap) lavorano insieme: in sostanza, le Forze di difesa israeliane (IDF) proteggono l’Ap e quest’ultima aiuta le IDF a scongiurare gli attacchi. Per quanto sia reciprocamente utile, questa collaborazione ha dimostrato di non avere alcuna possibilità di espandersi per risolvere il conflitto più ampio.

Al contrario, la quarta proposta di Ya’alon, che implica il coinvolgimento dei paesi arabi, è un’iniziativa importante che deve ancora essere esperita. E qui il piano di Moshe Ya’alon accende una concreta speranza.

E questo perché esiste un’importante simmetria tra ciò che i palestinesi vogliono da Israele e ciò che Israele vuole dai paesi arabi, e anche dalla Turchia e dall’Iran, vale a dire riconoscimento e legittimità. Notando questo parallelismo, avevo proposto in un articolo pubblicato sul Wall Street Journal che occorre tener conto di entrambe le aspirazioni, collegando “le concessioni a Israele da parte dei paesi arabi con le concessioni israeliane ai palestinesi”. Tutti ci guadagnerebbero: “I paesi arabi conseguirebbero quello che dicono essere il loro principale obiettivo: giustizia per i palestinesi. Israele avrebbe pace. I palestinesi avrebbero il loro Stato”.

Ad esempio, se i sauditi porranno fine al loro boicottaggio economico di Israele, gli israeliani favorirebbero l’accesso palestinese ai mercati internazionali. Se gli egiziani ravvivassero le relazioni, i palestinesi avrebbero un accesso facilitato al mercato del lavoro israeliano. Se i paesi arabi importanti firmassero accordi di pace con lo Stato ebraico di Israele, i palestinesi avrebbero il loro Stato.

Nel 2009, l’amministrazione Obama dette la forte impressione di muoversi in questa direzione, ma i sauditi non accolsero l’appello. Il presidente egiziano al-Sisi ha rilanciato l’idea nel 2016, che ancora una volta non ha trovato riscontro. In breve, l’opzione a tre vie che prevede il coinvolgimento dei paesi arabi, di Israele e dei palestinesi non è stata ancora accolta seriamente o con determinazione.

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Anche inchinandosi davanti al re saudita Abdullah, Obama non ha ottenuto cooperazione riguardo a Israele.

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Con al-Sisi e Ya’alon che ora dichiarano di essere favorevoli all’opzione a tre vie e con i paesi arabi scossi dalla bizzarra cooperazione dell’amministrazione Obama con Teheran, i leader del Medio Oriente potrebbero essere disposti a lavorare con lo Stato ebraico come non erano pronti a fare nel 1990 o nel 2009. Sicuramente, vale la pena provarci da parte della neo-insediata amministrazione Trump.

La diplomazia arabo-israeliana non farà progressi rispolverando le vecchie idee di Peres e George W Bush, né la cooperazione in materia di sicurezza potrebbe portare a svolte politiche. L’opzione che preferisco continua ad essere un sostegno americano alla vittoria di Israele, ma se ciò è troppo in questo momento, allora l’idea di coinvolgere i paesi arabi almeno offre una via d’uscita dalla vecchia, isolata e anche controproducente serie di negoziati israelo-palestinesi.

 

 

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