Cosa aspettarci da Donald Trump su Israele
Donald Trump è stato, durante tutta la campagna elettorale che poi lo ha portato all’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America, un outsider. Ha spiazzato, su una grandissima gamma di temi, l’establishment del Partito Repubblicano, ma su un tema si è dimostrato fedele alla linea dei Repubblicani: quello di Israele, e naturalmente i rapporti che con esso dovranno avere gli Stati Uniti durante la sua presidenza. Molto è stato scritto e detto, in maniera un po’ faziosa, sbrigativa e approssimativa, sulla distanza di Trump dal tema e sulla noncuranza del neoeletto nei confronti di Israele e della issue mediorientale.
Quasi tutto va, e andrà, rivalutato. Trump è stato dipinto come un isolazionista totale e un cinico anche nei confronti dello Stato ebraico, e questo per una traslazione errata di prese di posizione del già candidato su altri temi. Partiamo da un dato non trascurabile: uno degli uomini che più ha (avuto) influenza sul presidente Trump è suo cognato, Jared Kushner, ebreo, filo-sionista e, secondo molti, ispiratore della linea trumpiana su Israele e Medio Oriente. Linea che, appunto, non si può chiamare che “trumpiana” perché in parte innovativa rispetto alle prese di posizione precedenti dei Repubblicani, pur ribadendo la tradizionale vicinanza a Israele molto più sentita e ribadita che nei Democratici.
Trump ha fatto sapere, ed è questo forse il punto più forte di amicizia con Israele, che farà trasferire l’Ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, chiarendo così che gli USA definitivamente si impegnano nel riconoscimento di Gerusalemme come unica e indivisibile capitale dello Stato ebraico. Si è fatto molto rumore anche per le sue dichiarazioni circa il fatto che Trump, diventato presidente, non metterà bocca sulla questione degli insediamenti: ciò non solo a riprova della sua amicizia e della sua vicinanza politica con Benjamin Netanyahu (definito da Trump “un grande”), ma anche a testimonianza della sua voglia di disimpegnare l’America da situazioni di attrito e conflitto lontane dal territorio nordamericano. Attrito e conflitto che non verrebbero solo ed esclusivamente dai palestinesi e dalle organizzazioni terroristiche locali ma soprattutto dal colosso teocratico e pericolosissimo della regione: l’Iran.
Del Paese degli ayatollah Trump ha parlato durante un discorso all’AIPAC, il Comitato Affari Pubblici America-Israele, ovvero la principale lobby ebraica degli USA, chiarendo che da Presidente “smantellerà il disastroso Iran-Deal”, ma non specificando quando e come, e soprattutto come regolerà l’equilibrio nella regione.
Tale equilibrio passa anche dalla soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese e dalle soluzioni per la pace; stando a quanto detto dal suo top adviser in campagna elettorale, Trump ha come priorità la sicurezza, la difesa e l’amicizia verso Israele e “non la soluzione dei due Stati”: ciò implica, naturalmente, che si faccia maggior chiarezza sui rapporti tra entità statuale (fantomatica) palestinese e organizzazioni terroristiche e che vengano da entrambe le parti, ma soprattutto da Gaza e West Bank, chiare assicurazioni che un eventuale accordo verrà rispettato.
Con spirito imprenditoriale e di negoziatore Trump ebbe a dire che, qualora gli USA dovessero trovarsi mediatori di un accordo di pace egli sarà un arbitro imparziale che cercherà la soluzione migliore per entrambe le parti e per gli Stati Uniti, mettendo sulla bilancia i pro ed i contro e valutando quasi scientificamente la questione. Già da quanto detto si capisce che i timori e le apprensioni, create soprattutto dalla stampa e dai media in generale, su una eventuale posizione poco chiara di Trump su Israele sono poco più che chiacchiere: parole, avrebbe detto Catullo, da scrivere sull’acqua. Oltretutto, nel lontano (ma neanche tanto) 1983 fu conferito dal Fondo Nazionale Ebraico a Donald Trump, allora semplice imprenditore di successo, il Premio Albero della Vita: un riconoscimento umanitario conferito a coloro i quali si fossero distinti per il loro straordinario impegno e la loro dedizione alla causa dell’amicizia tra Stati Uniti ed Israele. Inutile sottolineare la lontananza delle posizioni del nuovo Presidente da quelle del suo predecessore Barack Obama, le quali hanno invece destabilizzato il Medio Oriente e creato grosse fratture tra Israele e USA e non solo.
Forse Donald Trump sarà un pessimo presidente, come la stampa e il mondo ci hanno ripetuto e continuano a ripetere e a differenza di come già accadde con Obama (e poi, invece…), ma sarà un alleato per Israele e una risorsa per la tranquillità dello Stato ebraico e la pace nel Medio Oriente.
A meno che i fatti non ci incarichino di smentire.
Guido Calosi, 9/11/2016
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