Aprile 2002, culmine della Seconda Intifada. L’esercito israeliano compie un’incursione a Ramallah e negli uffici di Fatah scopre documenti che dimostravano il passaggio di ordini da Yasser Arafat a Marwan Barghouti, percorrendo tutta la catena del terrore. Soldi, cinture di tritolo, armi, tutto annotato in lettere. Oltre a invitare al “martirio”, Arafat forniva consapevolmente i soldi per la preparazione degli attentati alle Brigate di al Aqsa. Prove che sarebbero servite a far condannare Barghouti a cinque ergastoli (un anno fa un tribunale di New York ha anche condannato l’Autorità nazionale palestinese per il suo diretto coinvolgimento in sei attentati).
Per spiegare la “Terza Intifada”, che in questi due mesi e mezzo ha causato trenta morti e trecento feriti fra gli israeliani, non è possibile ricorrere a documenti simili. Con un dollaro a Ramallah ora puoi acquistare i coltelli da cucina usati per pugnalare gli israeliani, con la stessa cifra nelle strade trovi i cd con la “musica dell’Intifada” e, più che in lettere su carta, gli ordini oggi corrono sulla rete. “Is Palestinian-Israeli violence being driven by social media?’”, chiede la Bbc.
La risposta è “sì” e le prove portano diritto alla “Muqata” di Ramallah, il palazzo di Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Quasi tutti gli attentatori in quest’ultima ondata di terrore hanno lasciato messaggi su Facebook. Il primo fu Muhannad Halabi, il terrorista palestinese che ha accoltellato a morte due persone a Gerusalemme, che aveva postato sul suo Facebook le motivazioni del duplice assassinio: “La Terza Intifada è iniziata. Ciò che sta accadendo alla Moschea di al Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi santi, è la via del nostro Profeta Maometto, è ciò che sta accadendo alle donne di al Aqsa e alle nostre madri e sorelle. Io non credo che il popolo soccomberà all’umiliazione. Il popolo si solleverà e sarà davvero Intifada”.
Finora, media e analisti hanno portato come “prove” del coinvolgimento di Abu Mazen figure come Ahmed Ruweidi, consigliere del presidente per gli affari di Gerusalemme, che ha detto: “Sono orgoglioso dei combattenti che adoperando il sangue, gli arresti, gli attacchi e le percosse sono riusciti a espellere gli ebrei con i loro corpi. A loro va tutto il mio rispetto e apprezzamento”. E’ l’incitamento all’odio del “moderato” Abu Mazen su cui il mondo punta, che chiama le piazze con i nomi dei terroristi e lascia che le sue tv e i suoi siti siano pieni di incitamento. Il Foglio in questa esclusiva è in grado di fare di più: dare un nome e un volto a uno dei principali burattinai di questa Terza Intifada.
Uno dei principali canali di indottrinamento per gli assalti palestinesi con i coltelli e le auto è una pagina Facebook traducibile dall’arabo come “Vietato l’ingresso agli ubriachi”. Il logo è un ragazzino palestinese con la kefiah, una lama in mano e la scritta: “Vigilate sulla Palestina con il coltello”. La pagina, fino a oggi, ha raccolto un milione e mezzo di like. Si trova sotto la sezione “arte e intrattenimento” ed è stata lanciata nel 2011 durante la cosiddetta “primavera araba”.
Un burattinaio di nome Husam Nabil Adwan
Da quando è stata promossa la Terza Intifada, alla fine di settembre, la pagina ha registrato un’impennata giornaliera di visitatori. Un’analisi attenta di questa pagina rivela un antisemitismo esasperato e l’invito giornaliero a uccidere ebrei israeliani.
Il 14 ottobre si chiede ai palestinesi di asfaltare gli israeliani in attesa dell’autobus, accompagnato da tanto di contachilometri: “Figli di Palestina, accoltellate e passate sopra con l’auto”. L’11 dicembre: “Vi invito in Palestina a testimoniare la rivoluzione contro l’occupazione sionista”. E ancora: “Figli di puttana (rivolto agli ebrei, ndr), che Allah vi maledica”. Ovunque immagini degli attentatori: “La sua anima è in paradiso”. Un soldato israeliano? “Figlio di cane”. Il 12 dicembre ci sono fotografie di assalti palestinesi a civili e soldati: “A coloro che dubitano della Palestina e del suo stato, guardate che eroismo”. Il 9 dicembre, con foto di israeliani portati via in ambulanza: “Allah il Grande ha ucciso un sionista”. Due giorni fa è arrivato, puntuale, anche un elogio di Nashat Melhem, il terrorista che venerdì ha ucciso due ragazzi israeliani nel caffè di Tel Aviv: “Che Allah lo protegga”. Gli ebrei sono chiamati ovunque “figli di scimmie e maiali”. Il 31 dicembre hanno avuto un modo originale di fare gli auguri: “Tutti aspettano Capodanno. Noi aspettiamo la testa di Netanyahu nelle mani della resistenza palestinese”.
Nei giorni scorsi il dottor Ofer Merin, capo dell’unità traumi dell’ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme, ha tenuto una conferenza stampa sulle vittime della Terza Intifada: “Gli attentatori sanno sempre dove colpire, le ferite che vediamo non sono mai casuali”. Colpiscono sempre per uccidere.
Giulio Meotti, Il Foglio, 05/01/2016
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