“Dai semi del passato rinascono i vini di Gesù”. Ovvero: della disinformazione enologica
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 01/12/2015, a pag. 37, con il titolo “Dai semi del passato rinascono i vini di Gesù”, il commento di Judi Rudoren.
Il modo in cui La Repubblica presenta l’articolo di Judi Rudoren è fuorviante: titolo e immagine che richiamano Gesù e strillo che recita: “I palestinesi: ‘E’ la nostra uva’ “. In realtà l’articolo descrive nella prima metà i successi dell’azienda israeliana Recanati Winery e la ricerca presso l’Università di Ariel.
Inoltre, appare ridicolo l’argomento utilizzato dall’arabo palestinese intervistato, secondo cui gli israeliani si sarebbero appropriati dei vini palestinesi (così come delle terre, del cibo ecc.: è il consueto tentativo antistorico che vorrebbe sostenere la mancanza di un legame tra ebrei e terra di Israele). Assurdo, visto che l’islam vieta il consumo di alcolici. La prossima volta si studi almeno una scusa migliore…
Inoltre abbiamo bevuto una volta il vino Cremisan in un ristorante, una esperienza che non ripeteremo…
Ecco l’articolo:
Il nuovo bianco — dal gusto ben definito, acido e minerale — proveniente da una rinomata azienda vinicola israeliana, era stato lasciato invecchiare per otto mesi. O, a seconda dei punti di vista, per non meno di 1800 anni. Il vino, chiamato Marawi e lanciato lo scorso mese dalla Recanati Winery nasce da una rivoluzionaria iniziativa della Ariel University, nei Territori Occupati, che mira ad identificare e riprodurre tramite il test del Dna dei vini antichi. Gli stessi che un tempo venivano gustati da Re David e Gesù Cristo. Basandosi su un riferimento presente nel Talmud babilonese, Eliyashiv Drori, l’enologo della Ariel che dirige la ricerca, fa risalire il Marawi e le uve di varietà Jandali al 220 d. C. «Vino e uva ricorrono in tutte le nostre Scritture », spiega. «I francesi non avevano ancora mai pensato a produrre vino quando noi già lo esportavamo».
Come spesso accade in questa terra di contrasti, anche la riscoperta delle varietà autoctone non è scevra da dissidi di natura politica: i palestinesi rivendicano infatti la proprietà di queste uve. La ricerca di varietà di uva “vecchie ma nuove” offre ai viticoltori israeliani un’occasione per differenziare i propri prodotti in un mercato globale assai competitivo. Archeologi e genetisti stanno intanto testando nuovi metodi per analizzare i semi antichi: un progetto che nell’infinita lotta tra israeliani e palestinesi mira a sottolineare come gli ebrei affondino le proprie radici in Terra Santa.
La Recanati non è la prima a commercializzare un vino prodotto con queste uve: Cremisan, una piccola azienda vinicola situata nei pressi di Betlemme e nella quale palestinesi e monaci italiani lavorano insieme, impiega già dal 2008 varietà di uve autoctone come la Hamdami e la Jandali. «In Israele dicono che i falafel, il tahini, il tabouleh e l’hummus sono un prodotto israeliano», dice Amer Kardosh, il direttore delle esportazioni della Cremisan. «Adesso fanno altrettanto con l’uva Jandali. Vorrei informarvi che queste varietà sono palestinesi, e crescono in vigneti palestinesi».
Già. Ma per timore di rappresaglie le vigne palestinesi che riforniscono con le proprie uve la Recanati mantengono l’anonimato: sia perché lavorano con gli israeliani che perché contribuiscono a produrre il vino, generalmente vietato dall’Islam. Sia in Israele che in Cisgiordania sono state scoperte delle presse enologiche di epoca biblica. Nel settimo secolo però, in seguito alla conquista della Terra Santa da parte dei musulmani, la produzione di vino fu bandita. Negli anni Ottanta del XIX secolo, quando il barone Edmond de Rothschild contribuì a ripristinare la produzione locale di vino, acquistò l’uva necessaria dalla Francia. Le 350 aziende vinicole di Israele producono ogni anno.
I ricercatori hanno identificato 70 diverse varietà a partire da semi bruciati e rinsecchiti, rinvenuti tra gli scavi archeologici. L’idea è quella di scoprire la corrispondenza tra quei semi antichi e le uve coltivate oggi. Itay Gleitman, che scrive di vini per Haaretz, ha definito il Marawi «il vino israeliano più importante dell’anno ». E che, se derivato da uve coltivate in modi esatti, ha delle potenzialità che «solleticano l’immaginazione ». C’è poi il Dabouki, anch’esso bianco, che il noto esperto di vini israeliano Avi Feldstein prevede di lanciare tra qualche mese, all’inaugurazione della sua nuova azienda vinicola. Il vino ottenuto con l’uva Dabouki, che è forse la più antica tra le varietà autoctone, potrebbe addirittura essere lo stesso che riempiva il calice di Gesù.
(New York Times News – Traduzione di Marzia Porta)
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