L’Europa vada a lezione da Israele
“Come si fa, di fronte alla sfida di combattere nemici interni ed esterni, a non abbandonare l’impegno per una società florida e sana?”. Per il professor Dan Schueftan, scienziato politico fra i più stimati in Israele, è questa la sfida che ha di fronte la Francia post 13 novembre e quella con cui convive Israele fin dal 1948. Ovvero come può una democrazia liberale convivere con la minaccia del terrorismo islamico e uscirne vincente, minimizzando le perdite. Gerusalemme è l’unico modello positivo di paese occidentale alle prese con il jihad. “Lo Stato ebraico è tutto qui, guardate quello che Israele ha fatto negli ultimi settant’anni”, dice al Foglio Schueftan, che ha anche tenuto lezioni all’esercito israeliano e che ha lavorato come consigliere prima di Yitzhak Rabin e poi di Ariel Sharon. “Israele ha costruito se stesso mentre fisicamente lottava contro gli stati arabi e i terroristi devoti alla sua distruzione”.
L’Europa ha molto da imparare da Israele dopo la mattanza parigina: “A cominciare dalla messa al bando del Movimento islamico da parte di Israele, un ottimo esempio di come l’Europa potrebbe combattere terrore e radicalismo islamico”, dice al Foglio Dina Lisnyansky, fra i maggiori esperti di terrorismo in Israele, docente alla Bar-Ilan University e fondatrice del Petah Tikva Israeli Center for Russian and Eurasian Studies. Ieri, nell’annunciare la messa al bando del Movimento islamico, il premier Benjamin Netanyahu l’ha definito “un’organizzazione che non riconosce le istituzioni di Israele, nega il suo diritto di esistere e invoca l’istituzione al suo posto di un califfato islamico”.
E’ lo stesso obiettivo della galassia islamista in Europa. “La Fratellanza musulmana è stata bandita in Egitto, Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti – ci spiega Lisnyansky – Perché non farlo anche in Europa? La Fratellanza musulmana è la più grande organizzazione fondamentalista del mondo. Sono loro, non i salafiti e i wahabiti, a preparare il terreno per l’islam radicale. Ma le grandi organizzazioni musulmane in Europa, dall’Ucoi in Italia all’Uoif in Francia fino al Mab in Inghilterra, non compaiono come formalmente affiliate alla Fratellanza, sebbene lo siano grazie alla Fioe, la Federazione delle organizzazioni islamiche in Europa. Io mi aspettavo questo attentato a Parigi, non è stata affatto una sorpresa. L’Europa purtroppo non pensa che la Fratellanza sia una minaccia e, per decidere se mettere al bando un’organizzazione islamica, va sempre in cerca di passaggi di armi e denaro. Invece è l’incitamento a uccidere che deve essere proibito. In Israele è un crimine incitare a uccidere gli ebrei. In Europa non dovrebbe essere lecito incitare a uccidere gli europei”.Amira Halperin, studiosa israeliana del Truman Research Institute di Gerusalemme, suggerisce all’Europa di impedire agli imam di usare le accademie per predicare la guerra santa. Nel Regno Unito, le università si sono trasformate in termitai islamisti. “L’estremismo islamico in Inghilterra ha fatto la sua comparsa sulla scena con un attentato in Israele, al caffè Mike’s Place”, dice Halperin al Foglio. Il 30 aprile 2003 due kamikaze inglesi si fecero esplodere al celebre ristorante sul lungomare di Tel Aviv, uccidendo tre israeliani. “L’Europa deve bandire i predicatori dell’odio, come abbiamo fatto in Israele questa settimana”, dice Halperin.
Le comunità islamiche in Europa ogni giorno si abbeverano alle televisioni del mondo islamico, quella di Hamas, di Hezbollah e le emittenti dei regimi del Golfo, che propagano nella diaspora europea una ideologia nichilista che invita a uccidere gli “infedeli”, gli ebrei e i cristiani. L’Unione europea avrebbe gli strumenti per chiudere questi canali satellitari, ma non lo ha mai fatto. Da anni, Gerusalemme denuncia il discorso dell’odio come fertilizzante per il terrorismo, ma l’Europa è stata sempre sorda, tanto da finanziare i libri di testo palestinesi pieni di quell’incitamento. Lo si è visto anche in questa “Terza Intifada”, con gli inviti ad accoltellare gli ebrei sui social media e le televisioni palestinesi. Ne parliamo con Elihu Richter, tra i massimi esperti mondiali di incitamento all’odio, già fondatore del Jerusalem Center for Genocide Prevention e docente nella facoltà di Medicina alla Hebrew University e autore di alcuni degli studi più preziosi sull’argomento: “Le parole plasmano la mente. L’incitamento all’odio fu decisivo nella Shoah, con gli ebrei che venivano ritratti come ratti, virus, un cancro. I nazisti erano degli ottimi pubblicitari. La demonizzazione oggi spinge il terrorista islamico a vedere gli altri come male. Ne è un esempio l’Iran, che incita a cancellare Israele dalla mappa geografica. Poi c’è un incitamento anche più sottile, quello invisibile, che ti porta a ignorare persino l’esistenza di un determinato gruppo. E’ il caso dei palestinesi con Israele. In Ruanda, furono i giornalisti alla radio a incitare a sterminare i Tutsi. All’Europa quindi dico: zero tolleranza per l’incitamento, che è come il software del terrorismo. Le parole uccidono”.
Una democrazia, sì, ma con un’identità
Dan Schueftan è appena tornato da una lunga docenza alla Georgetown University negli Stati Uniti per assumere l’incarico di direttore del National Security Studies Center all’Università di Haifa: “Il fatto di essere attaccati ci porta a essere barbarici come i terroristi o a mantenere i propri princìpi?”, dice al Foglio. “Se non combatti i tuoi nemici non esisti affatto. Ma se esisti soltanto per combattere i tuoi nemici la tua esistenza non avrà comunque significato. La tua popolazione non ti seguirà in quel caso. Israele così ha deciso di rimanere una ‘building society’. Questa sfida è fondamentale anche per l’Europa. E’ facile essere barbarici dentro e fuori come accade in medio oriente a molti regimi. Israele è l’unica eccezione. L’Europa invece oggi è debole sia all’esterno che all’interno. Se vieni a vivere in Europa e vuoi mantenere la tua cultura questo va bene. Ma se la tua cultura tratta le donne come schiave questo non è più accettabile. La difesa di un paese non si realizza soltanto sul campo di battaglia, con gli arresti e i controlli agli aeroporti o i bombardamenti a Raqqa. Ma lo si fa anche preservando il tuo modo di vivere e i tuoi valori”. E questo è quello che fa Israele. “Non siamo perfetti, ma funziona. Abbiamo avuto guerre fin da prima dell’esistenza di Israele da parte degli stati arabi. E’ iniziato con gli ebrei che vennero a vivere qui. Siamo stati bravi a difenderci, ma anche a costruire una società di cui tutto il mondo dovrebbe andare fiero. Abbiamo creato una ‘open society’, anche con ebrei che venivano da paesi comunisti o arabi e che non avevano alcuna esperienza della democrazia. Abbiamo creato la democrazia dal niente. Tempo fa, parlando con responsabili del Vaticano, mi sono detto furioso che l’Europa non ha inserito in costituzione le proprie radici cristiane. Se non espliciti le tue origini sei spacciato. Negare il proprio passato per paura di ‘offendere’ è inaccettabile. Una democrazia deve essere fiera della propria identità”. E’ quello che prova a fare Israele con la richiesta esplicita di riconoscimento, al mondo e ai palestinesi, di Israele come “stato ebraico”. Perché la gente fugge dal medio oriente, si domanda Schueftan? “E’ pieno di petrolio e ricchezza, poteva vivere bene sotto Saddam Hussein e altri tiranni. Ma avevano una vita politica interna terribile. L’alternativa in Libia a Gheddafi sono i barbari che la controllano oggi”.
Questo non avviene in Israele, dove infatti non c’è un solo giornalista o scrittore sotto scorta, a differenza che in Europa, dove sta diventando la norma. “A me non importa che le guardie armate controllino le mie borse all’ingresso dell’Università di Haifa, perché non la considero una violazione della mia libertà ma anzi una sua difesa – dice Schueftan – In Israele abbiamo tante persone che criticano la stessa Israele, che persino lo odiano, ma non se ne vanno in giro a uccidere israeliani. Ci provano, ma noi non lo consentiamo. Come invece avviene in Europa. L’Europa non deve considerare solo le minacce violente, ma anche quelle alla sua cultura. Non consentite che la tolleranza sia usata per distruggere la tolleranza. In Europa oggi ci sono dei barbari che usano il linguaggio del pluralismo per distruggere il pluralismo”.
Poi ci sono misure pratiche che l’Europa potrebbe emulare da Israele. Le illustra al Foglio Alex Fishman, l’esperto di sicurezza del maggiore quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth: “E’ vero che tutto il sistema israeliano è il frutto di quarant’anni di antiterrorismo e che l’Europa non può imparare in un giorno. E che l’opinione pubblica europea non ha mai davvero voluto capire Israele. Parliamo infatti di migliaia di attentati. Prima di tutto serve un forte sistema giudiziario, credibile e specchiato, cosa che non ha l’Europa. Per esempio in Israele non puoi togliere la cittadinanza a chi va a combattere con l’Isis, cosa che vorrebbero fare i governi europei. Restiamo sempre una grande democrazia”. L’Europa, come Israele, deve mettere fuori legge le organizzazioni che incitano al terrore, come ha fatto il governo Netanyahu con il Movimento islamico.
“In Egitto il generale Sisi ha chiuso centinaia di moschee salafite”, ci dice Fishman. “Le democrazie non possono farlo. Ma si può fare qualcosa. Inoltre, quanti traduttori di arabo ci sono in Francia e Belgio che lavorano con la polizia e l’intelligence nelle comunità islamiche? Pochissimi. In Israele, chi lavora nella sicurezza parla anche l’arabo. L’Europa deve avere sotto controllo qualunque cosa succede nelle grandi comunità islamiche. Israele ha una legge a favore degli ‘interrogatori pesanti’, che consente in casi speciali di farne uso. Ma il sistema, anche qui, è sotto controllo”. Dal 1999, la Corte suprema ha stabilito che se l’interrogatorio serve a prevenire attentati terroristici, allora è ammessa una forma di “pressione fisica” che Israele distingue chiaramente dalla tortura. Gli Stati Uniti dopo l’11 settembre hanno indicato questo modello. Israele fa anche uso della “detenzione amministrativa” in casi speciali, che le consente di detenere e interrogare un sospetto terrorista per quattordici giorni, senza neppure fargli vedere l’avvocato. “Serve per proteggere le fonti di intelligence”, ci dice Fishman.
Un assalto come quello al Bataclan di Parigi sarebbe stato impensabile in Israele. Non soltanto perché ci sarebbero state guardie all’ingresso. Ma anche perché dopo le prime raffiche, i terroristi sarebbero stati abbattuti da israeliani, civili o militari. Lo si è visto durante la Terza Intifada a Gerusalemme, dove i terroristi venivano disarmati e inseguiti dagli israeliani.
“In Israele ogni spazio pubblico, ogni scuola, centro sportivo e supermercato è protetto da guardie armate”, continua al Foglio Fishman. “In ogni luogo pubblico c’è un metal detector. Le guardie sono finanziate dallo stato e dalle compagnie private”. Poi c’è una questione culturale. In Israele, dopo un attentato, i luoghi colpiti non diventano meta di pellegrinaggi come a Parigi. “In Israele il terrorismo è parte del Dna della società. Colpiscono e si riparte subito con la routine. La gente ha paura, ma è forte. E la sua forza sta nella solidarietà. Ecco, mi pare che sia questa che manchi oggi all’Europa”. Dopo aver demonizzato per anni Israele, forse i 130 morti di Parigi possono far avvicinare l’Europa e lo stato ebraico nella comprensione di avere di fronte un nemico comune. Conclude Lysniansky: “Israele ed Europa sono dalla stessa parte, siamo una democrazia occidentale nel cuore del medio oriente, combattiamo il terrorismo e il radicalismo islamico, entrambi siamo al centro di un conflitto religioso. E questo conflitto ha appena raggiunto l’Europa”.
Venerdì sera, mentre a Parigi iniziava la conta e il riconoscimento dei cadaveri di fronte alle brasserie, allo stadio e al teatro Bataclan, i media palestinesi già diffondevano complotti sulla lunga mano sionista dietro la strage e da Gaza gli islamisti celebravano lanciando missili sul sud d’Israele. A Tel Aviv e a Gerusalemme, i palazzi dello stato ebraico si accendevano dei colori della bandiera francese. Da una parte l’odio, dall’altra la civiltà. Da che parte starà l’Europa?
Giulio Meotti, Il Foglio, 19 Novembre 2015
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