di Daniel Pipes
Mackenzie Institute
9 settembre 2015

http://it.danielpipes.org/16236/medio-oriente-provocazioni-previsioni

Pezzo in lingua originale inglese: Middle East Provocations and Predictions

Traduzioni di Angelita La Spada

Il Medio Oriente si contraddistingue come la regione più instabile, critica e tormentata del mondo; non a caso, essa suscita altresì i dibattiti politici più intensi – si pensi al conflitto arabo-israeliano o all’accordo sul nucleare iraniano. La seguente panoramica offre interpretazioni e speculazioni sull’Iran, sull’Isis, sulla Siria e sull’Iraq, sui curdi, sull’Arabia Saudita, sull’Egitto, su Israele e sull’islamismo, per poi terminare con alcune riflessioni sulle scelte politiche. La mia conclusione è laconica: c’è qualche buona notizia sotto la mole di incomprensioni, errori e miseria.

Iran

In questi giorni, l’Iran è l’argomento principale, soprattutto da quando esso ha siglato il 14 luglio a Vienna l’accordo sul nucleare con sei grandi potenze mondiali. Il Piano d’azione globale congiunto cerca di aiutare Teheran a uscire dall’isolamento, ponendo fine a decenni di ostilità e inducendo l’Iran a diventare uno Stato più normale. Di per sé, questa è un’impresa davvero meritevole.

Il problema risiede nell’attuazione, che è esecrabile, visto che si premia un governo aggressivo fornendogli legittimità e ulteriori finanziamenti, senza richiedere rigorose garanzie sul suo programma per la realizzazione di armi nucleari e permettendone l’attuazione nel giro di un decennio. Negli annali della diplomazia non c’è alcuna traccia di una resa da parte delle grandi potenze a uno Stato debole e isolato.

La leadership iraniana ha una mentalità apocalittica e si preoccupa per la fine del mondo, lo stesso non si può dire dei nordcoreani, di Stalin, Mao, dei pakistani o di chiunque altro. Il leader supremo Ali Khamenei e altri vogliono ricorrere all’uso di queste armi per motivi che esulano dalle normali preoccupazioni di ordine militare, vale a dire per provocare la fine del mondo. Ecco perché è impellente fermarli.

Le sanzioni economiche però sono una questione secondaria, e perfino un diversivo. Il governo iraniano è paragonabile alla Corea del Nord nella sua dedizione assoluta alla costruzione di queste armi e nella sua disponibilità a fare tutto il necessario per ottenerle, che si tratti della morte per inedia di milioni di persone o di qualche altra calamità. Pertanto, poco importa se le sanzioni saranno applicate con severità, esse renderanno la vita più difficile alla leadership iraniana, senza di fatto fermare la proliferazione nucleare.

L’unico modo per farlo è ricorrere all’uso della forza. Spero che il governo israeliano – l’unico che potrebbe agire – si assumerà questo compito pericoloso e ingrato. Può farlo con bombardamenti aerei, operazioni speciali o utilizzando armi nucleari, e la seconda opzione è la più allettante e difficile.

Se gli israeliani non fermeranno la costruzione della bomba nucleare, un ordigno di questa fattispecie nelle mani dei mullah avrà terribili conseguenze per il Medio Oriente e non solo, compreso il Nord America, dove non occorre escludere un devastante attacco a impulsi elettromagnetici.

Al contrario, se gli iraniani non utilizzeranno le loro nuove armi, è possibile che il maggiore contatto con il mondo esterno e gli sconvolgimenti causati dalle incoerenti politiche occidentali faranno in modo di minare il regime.

Isis

Lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria (alias Isis, Isil, Stato islamico, Daesh) è l’argomento che attira la massima attenzione, diversamente dall’Iran. Sono d’accordo con Ron Dermer, l’ambasciatore israeliano a Washington, the l’Iran è un migliaio di volte più pericoloso dell’Isis. Ma lo Stato islamico è anche mille volte più interessante. Inoltre, l’amministrazione Obama lo considera un utile spauracchio per giustificare il fatto che collabora con Teheran.

Emerso quasi dal nulla, il gruppo ha portato la nostalgia islamica a estremi inimmaginabili. I sauditi, gli ayatollah, i talebani, Boko Haram e Shabaab, ognuno di loro ha imposto la propria versione di un ordine medievale. Ma l’Isis è andato oltre, riproducendo al meglio un ambiente islamico del XVII secolo, fino a particolari come la decapitazione pubblica e la schiavitù.

Questa impresa ha provocato due reazioni opposte tra i musulmani. Una favorevole, come mostrato dai musulmani provenienti dalla Tunisia e dall’Occidente, attratti come falene da una visione radiosamente pura dell’Islam. L’altra reazione, la più importante, è negativa. La grande maggioranza dei musulmani, per non parlare dei non musulmani, prende le distanze dal fenomeno violento ed eccessivo dell’Isis. A lungo termine, lo Stato islamico danneggerà il movimento islamista (l’unico che aspira ad applicare la legge islamica nella sua interezza) e perfino l’Islam in sé, dal momento che i musulmani in gran numero detestano l’Isis.

Una cosa che riguarda lo Stato islamico, probabilmente durerà: l’idea del califfato. L’ultimo califfo governò di fatto sino al 940 circa. Intorno al 940 e non al 1940, più di mille anni fa. La ricomparsa di un califfo dopo secoli di fantomatici califfi, ha suscitato un notevole entusiasmo tra gli islamisti. In termini occidentali, è come se qualcuno riesumasse l’Impero romano con un pezzo di territorio in Europa; il che attirerebbe l’attenzione di tutti. Prevedo che il califfato avrà un impatto duraturo e negativo.

La Siria, l’Iraq e i curdi

In certi ambienti, la Siria e l’Iraq vengono chiamati Suraqiya, un termine ottenuto combinando i loro nomi quando i loro confini sono crollati e si sono divisi in tre zone: un governo centrale di ispirazione sciita, una parte araba sunnita che è ribelle e una parte curda che vuole l’indipendenza.

Questo è uno sviluppo positivo, perché non c’è nulla di sacro riguardo all’accordo Sykes-Picot siglato nel 1916 da Gran Bretagna e Francia che ha creato questi due Stati. Anzi, al contrario, quell’accordo si è dimostrato un completo fallimento: basta evocare i nomi di Hafez al-Assad e Saddam Hussein per capirne il perché. Questi Stati miserabili esistevano a beneficio dei loro leader mostruosi che hanno ucciso i propri sudditi. Pertanto, dividerli in tre parti, avrebbe migliorato le cose per la gente del posto e il mondo esterno.

Poiché i jihadisti sunniti appoggiati dalla Turchia combattono a Suraqiya i jihadisti sciiti appoggiati dall’Iran, l’Occidente dovrebbe stare lontano dai combattimenti. Nessuna delle due parti merita un sostegno; questa lotta non ci riguarda. Infatti, se queste due forze del male si scannano a vicenda avranno meno opportunità di aggredire il resto del mondo. Se desideriamo aiutarle, dovremmo adoperarci soprattutto per sostenere le numerose vittime della guerra civile; se vogliamo essere strategici, occorrerebbe aiutare la parte perdente (in modo tale che non vinca nessuna parte).

Per quanto concerne l’esodo di profughi dalla Siria: i governi occidentali non dovrebbero accoglierli in gran numero, piuttosto invece dovrebbero esercitare pressioni sull’Arabia Saudita e sugli altri ricchi paesi del Medio Oriente affinché li ospitino. Perché i sauditi non dovrebbero farlo quando il loro paese ha molti vantaggi rispetto, ad esempio, alla Svezia, come la compatibilità linguistica, culturale e religiosa, così come la vicinanza e un clima simile.

La rapida comparsa di un’entità curda in Iraq, seguita da un’altra in Siria, così come una nuova risolutezza in Turchia e brontolii in Iran sono un segnale positivo. I curdi hanno dimostrato di avere un senso di responsabilità che nessuno dei loro vicini ha mostrato di avere. Dico questo, come qualcuno che 25 anni fa era contrario all’autonomia curda. Cerchiamo di aiutare i curdi che sono l’unico alleato che abbiamo nel Medio Oriente musulmano. Non solo dovrebbero esserci unità curde indipendenti, ma anche un Kurdistan unificato composto da tutti e quattro i paesi. Il fatto che questo danneggi l’integrità territoriale di questi Stati non costituisce un problema, in quanto nessuno di essi attualmente funziona bene.

La Turchia

Le elezioni del giugno 2015 non sono andate così bene per il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), al governo dal 2002. Si tratta di un partito islamista ma ultimamente è diventato il partito della tirannia. Recep Tayyip Erdogan, la sua figura dominante, fa come vuole, esercitando un’indebita influenza sulle banche, sui media, sulle scuole, sui tribunali, sulle forze dell’ordine, sui servizi di intelligence e sull’esercito. Erdogan ignora i costumi, le norme e i regolamenti, e anche la Costituzione per costruire un sistema totalitario. Egli è la versione mediorientale del venezuelano Hugo Chavez.

In gran parte, Erdogan ha rispettato le regole democratiche, attraverso le elezioni e il parlamento, che lo ha servito bene. Ma le elezioni di giugno potrebbero aver sancito la fine della sua moderazione. Non credo che egli abbia accettato il verdetto delle elezioni. Come diceva quando era sindaco di Istanbul, la democrazia è come un autobus: “Lo si prende, e arrivati a destinazione si scende”. Erdogan ora ha raggiunto quella destinazione e sembra pronto a scendere. Egli ha avviato le ostilità contro il Pkk curdo come una brutta strategia elettorale (per conquistare i nazionalisti turchi): egli sarebbe anche capace di arrivare al punto di scatenare una guerra da ora alle elezioni anticipate dell’1 novembre, approfittando di una disposizione costituzionale che prevede il rinvio delle elezioni in tempo di guerra.

Di conseguenza, il contraccolpo elettorale di luglio non distoglierà Erdogan dall’intento di continuare a percorrere la strada della tirannia.

La rovina di Erdogan probabilmente non sarà causata da problemi interni né da banalità come la conta dei voti, piuttosto, essa sarà sancita dall’estero e riguarderà questioni più ampie. Proprio perché ha agito così bene a livello interno, Erdogan ritiene di essere un politico che domina la scena internazionale e che persegue una politica estera aggressiva come quella interna. Ma dopo qualche successo iniziale della politica contraddistinta dal motto “zero problemi con i vicini”, il prestigio internazionale della Turchia è stato ridotto in frantumi. Ankara ha pessimi rapporti o grossi problemi con quasi tutti i paesi vicini: la Russia, l’Azerbaijan, l’Iran, la Siria, l’Iraq, Israele, l’Egitto, Cipro greca, Cipro turca e la Grecia, e anche gli Stati Uniti e la Cina. Probabilmente sarà qualche bravata estera a decretare la rovina di Erdogan.

L’Arabia Saudita

L’Arabia Saudita è il paese più singolare del mondo. Anche per chi è del Qatar o di Abu Dhabi, le sue istituzioni governative e i suoi costumi sociali sono strani. In esso non esiste, ad esempio, alcuna sala cinematografica. Uomini e donne usano ascensori separati. A chi non è musulmano è vietato entrare in due delle sue città (la Mecca e Medina). La polizia religiosa terrorizza la popolazione. I cristiani finiscono nei guai se professano la loro fede, e anche gli ebrei, con rare eccezioni, non sono graditi nel paese.

Il governo dirige un potente ed esperto stato di polizia con poche pretese di elezioni, di una Costituzione scritta e altre cose tipiche delle dittature. Esso osserva, censura e si intromette. I posti di blocco della polizia proliferano. Il governo impiega tre differenti forze di polizia – i mercenari pakistani per difendere i giacimenti petroliferi, un esercito nazionale per difendere i confini e una guardia tribale per proteggere la monarchia. Le monarchie in genere hanno 10, 20 o anche 50 membri della famiglia reale; la famiglia reale Al Saud consta di circa 10.000 maschi (le donne non contano politicamente) ed essi costituiscono una nomenklatura, per usare questo utile termine sovietico. I membri della famiglia reale dirigono il paese, che è stato definito come l’unica azienda a conduzione familiare ad avere un seggio alle Nazioni Unite.

Ma questa struttura ora si trova in pericolo. Da 70 anni, la monarchia fa affidamento sul governo americano per la sicurezza esterna. Ora, per la prima volta, nell’era di Obama, questa garanzia non esiste più, e soprattutto non dopo l’accordo con l’Iran, in cui Washington è più vicino a Teheran che a Riad. La leadership saudita sta adottando una serie di misure per proteggersi, la più rilevante delle quali consiste nel fatto di collaborare con Israele. Si tratta di una logica conseguenza, anche se sorprende un po’. Io credo che sia una misura temporanea e che non sopravvivrà alla crisi. Se nel 2017 un repubblicano diventerà presidente degli Stati Uniti, i rapporti con Israele si interromperanno.

L’Egitto

Abdel Fattah al-Sisi è al potere da due anni, dal luglio 2013, a seguito di una massiccia manifestazione di protesta contro il presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli musulmani. Sisi ha in mente le giuste priorità: sopprimere gli islamisti e risollevare l’economia, ma mi preoccupa il fatto che lui possa conseguire buoni risultati in entrambi gli intenti.

Nessuno disprezza gli islamisti più di me. Condivido le severe misure volte a combattere questo movimento totalitario e i suoi membri, come respingere i suoi tentativi di applicare la legge islamica, escludere i rappresentanti del movimento dalle principali istituzioni e bandirli dalle elezioni. Ad esempio, l’aver condannato a morte circa 600 persone per l’uccisione di un poliziotto, e poi, un mese dopo, circa altre 700 per lo stesso omicidio, non è solo enormemente sproporzionato ma potrebbe anche ritorcersi contro e aiutare gli islamisti a conquistarsi la simpatia.

L’economia è l’altro grande problema. Negli anni Cinquanta, Gamal Abdel Nasser, un altro ufficiale dell’esercito, pose in essere un regime socialista tipico di quell’epoca, con grandi fabbriche in stile sovietico che tentavano maldestramente di sostituire le importazioni. Non solo questo sistema è ancora operativo ma il ruolo dell’economia di Stato crebbe notevolmente sotto Mubarak e continua a crescere sotto Sisi. Entrambi i presidenti hanno reso felici i colleghi militari in pensione conferendo loro sinecure. “Sei un colonnello in pensione? Bene, dirigi questa fabbrica di cotone” oppure “Fondare questa “città nel deserto”. Le stime indicano che circa il 25-40 per cento dell’economia egiziana arranca come “Esercito, Incorporation”.

Inoltre, disprezzare l’agricoltura crea enormi problemi, tanto che l’Egitto, in termini relativi e assoluti, importa più del suo apporto calorico rispetto a qualsiasi altro paese. Ad esempio, i dati dell’anno fiscale 2013-2014 mostrano che l’Egitto ha importato 5,46 milioni di tonnellate di grano, ossia il 60 per cento del consumo totale del paese, il che ne fa il più grande importatore di grano al mondo. Un tempo chiamato granaio del Nilo, l’Egitto ora non nutre più se stesso, piuttosto dipende dai sauditi e da altri per gli aiuti necessari per acquistare cibo all’estero. La recente scoperta di un giacimento di gas nel Mediterraneo aiuterà, ma non risolverà questo problema.

Al-Sisi sembra impreparato a essere presidente dell’Egitto come lo era un altro militare, Gamal Abdul Nasser, 60 anni fa. Nella sferzante analisi dell’analista americano Lee Smith:

Non è un caso che un Egitto in declino abbia permesso a un uomo come al-Sisi di farsi avanti. Orgoglioso e incompetente, Sisi si considera comunque come parte di un continuum dei grandi leader egiziani, come Nasser e Anwar al-Sadat. Sisi ha detto a un giornalista in un’intervista informale poi trapelata ai media che da 35 anni sognava la sua grandezza. Ma molte decisioni da lui prese si sono dimostrate rischiose e difficili.

Egli ha ancora grande successo, con alti indici di popolarità (si pensi ai biscotti e ai pigiami raffiguranti il suo volto), ma se Sisi dovesse vacillare quel sostegno svanirà rapidamente. Gli islamisti sfrutteranno la sua incompetenza così come lui sfrutta i suoi fallimenti. Il ciclo di colpi di Stato rischia di ripetersi, e con l’Egitto che è sempre più arretrato il disastro è incombente insieme alla prospettiva di una massiccia emigrazione. Auguro ogni bene a Sisi ma mi preparo al peggio.

Israele

Nel novembre 2000, Ehud Barak disse che Israele assomiglia a “una villa nella giungla”. Mi piace questa espressione, e oggi è ancor più vera, con l’Isis lungo il confine siriano e del Sinai; il Libano e la Giordania che scricchiolano sotto l’afflusso insostenibile dei rifugiati; la Cisgiordania in preda all’anarchia e Gaza che non è da meno.

Tutti conoscono le capacità tecnologiche altamente innovative e il valore militare di Israele. Ma c’è molto altro che rasenta lo straordinario.

La demografia. L’intero mondo moderno e industriale, dalla Corea del Sud alla Svezia, non è in grado di garantirsi un ricambio demografico, con la sola rilevante eccezione di Israele. Le società hanno bisogno di circa 2,1 figli per donna per sostenere le loro popolazioni. Islanda, Francia e Irlanda, sono appena al di sotto di tale livello, ma poi le percentuali peggiorano fino ad arrivare a Hong Kong con 1,1 figli per donna, ovvero poco più della metà di ciò che è necessario a un paese per sopravvivere a lungo termine. Bene, Israele, registra 3,0 figli per donna. Sì, è vero, gli arabi e gli haredim spiegano in parte questa cifra elevata, ma essa dipende anche dagli abitanti laici di Tel Aviv. Avere più figli, è uno sviluppo pressoché senza precedenti per un paese moderno.

L’energia. Tutti conoscono la vecchia battuta su Mosè che prese una strada sbagliata quando lasciò l’Egitto. Beh no, non fu così. Israele ha una grande riserva di energia, come l’Arabia Saudita. Ora, questa risorsa non è accessibile, in quanto è molto più costosa e complessa da sfruttare rispetto alle enormi e poco profonde sacche di petrolio dell’Arabia saudita, ma è lì e gli israeliani un giorno lo estrarranno.

L’immigrazione illegale. Questa è un crisi in fermentazione per l’Europa, soprattutto in estate, quando il Mediterraneo e i Balcani diventano autostrade provenienti dal Medio Oriente. Israele è l’unico paese occidentale che ha gestito questa situazione costruendo recinzioni che permettono di controllare i confini.

L’acqua. Venti anni fa, come chiunque altro in Medio Oriente, gli israeliani erano a corto d’acqua. Poi, essi risolsero questo problema grazie alla conservazione, l’irrigazione a goccia, nuovi metodi di desalinizzazione e il riciclaggio intensivo. Un dato statistico: la Spagna si posiziona al secondo posto nel riciclaggio delle acque usate (circa il 18 per cento). Israele fa più riciclaggio, che si aggira attorno al 90 per cento, cinque volte di più rispetto alla Spagna. Oramai in Israele c’è talmente acqua da essere esportata in parte nei paesi vicini.

Complessivamente, Israele sta lavorando molto bene. Naturalmente, vive sotto la minaccia delle armi di distruzione di massa e del processo di delegittimazione. Ma ha registrato dei successi che a mio avviso gli permetteranno di affrontare queste sfide.

Tre tipi di ideologia islamista

Gli islamisti possono essere suddivisi in tre forze principali.

I rivoluzionari sciiti. Capeggiati dal regime iraniano, essi sono sul piede di guerra, confidando nell’aiuto di Teheran, nell’ideologia apocalittica, nella sovversione e (alla fine) nelle armi nucleari. Vogliono rovesciare l’esistente ordine mondiale e rimpiazzarlo con uno islamico, come aveva immaginato l’ayatollah Khomeini. La forza dei rivoluzionari risiede nella loro determinazione; la loro debolezza è data dalla condizione di minoranza in cui versano, poiché gli sciiti costituiscono solo il 10 per cento o giù di lì della popolazione musulmana totale e inoltre si suddividono in una pluralità di sotto-gruppi come gli Zayditi che riconoscono cinque imam, gli Ismailiti che ne riconoscono sette e gli Imamiti o Duodecimani che ne riconoscono dodici (N.d.T.).

I revisionisti sunniti. Essi utilizzano varie tattiche nello sforzo comune di rovesciare l’ordine esistente. Nell’ala estrema si collocano quelli folli come l’Isis, al-Qaeda, Boko Haram, Shabaab e i Talebani, tutti pieni di odio, violenti e ancor più rivoluzionari rispetto alle loro controparti sciite. I Fratelli musulmani e i loro affiliati (come il presidente turco Erdogan) si collocano al centro: usano la violenza solo se necessario, ma preferiscono operare in seno al sistema. Gli islamisti “morbidi” come Fethullah Gülen, il predicatore turco che vive in auto-esilio in Pennsylvania, promuovono la loro visione attraverso l’istruzione e il commercio e lavorano rigorosamente dentro il sistema, ma i loro obiettivi, nonostante le tattiche moderate, non sono meno ambiziosi.

I fautori del mantenimento dello status quo sunnita. Lo Stato saudita guida un blocco di governi (che sono membri del GCC, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, ossia Egitto, Giordania, Algeria e Marocco), solo alcuni dei quali sono islamisti che vogliono mantenere ciò che hanno e allontanare i rivoluzionari e i revisionisti.

Le tattiche islamiste: violente e lecite

Gli islamisti violenti, tanto sciiti quanto sunniti, sono condannati. I loro attacchi contro i loro fratelli musulmani allontanano i correligionari. Essi sfidano i non musulmani proprio in quei settori dove questi ultimi sono più forti; la potenza combinata delle forze militari, di quelle dell’ordine e dei servizi di intelligence è in grado di soffocare qualsiasi rivolta islamista.

La violenza islamista è controproducente. La qualità del rullo dei suoi tamburi di guerra mobilita l’opinione pubblica. Gli attacchi omicidi influenzano l’opinione pubblica, e non gli analisti, i media e i politici. Un episodio come quello del massacro compiuto nella redazione parigina di Charlie Hebdo influenza gli elettori a esprimere la loro preferenza per i partiti anti-islamici. Il sangue versato nelle strade docet. Si impara dagli omicidi.

Al contrario, gli islamisti rispettosi della legge che operano all’interno del sistema sono molto pericolosi. Sono considerati persone rispettabili, che vanno in televisione, svolgono l’attività forense nelle aule dei tribunali e sono insegnanti. I governi occidentali li trattano erroneamente come loro alleati contro i pazzi. La mia regola empirica: gli islamisti meno violenti sono i più pericolosi.

Pertanto, se io fossi uno stratega islamista, direi: “Occorre operare all’interno del sistema. Non ricorrere alla violenza tranne in quelle rare occasioni in cui essa intimorisce e contribuisce a raggiungere l’obiettivo”. In realtà, gli islamisti non fanno questo, a loro danno. E commettono un grave errore, a nostro vantaggio.

L’islamismo è in declino?

Il movimento islamista potrebbe essere in declino a causa delle lotte intestine e dell’impopolarità.

Non più tardi del 2012, esso sembrava in grado di superare le numerose tensioni interne – settarie (sunniti, sciiti), politiche (monarchici, repubblicani), tattiche (politiche, violente), riguardanti la loro posizione nei confronti della modernità (salafiti, Fratelli musulmani) e personali (Fethullah Gülen, Recep Tayyip Erdogan). Ma da allora gli islamisti non riescono a smettere di combattersi a vicenda. Questo rientra in uno schema storico del Medio Oriente in cui un elemento vittorioso tende a dividere. Man mano che il potere si avvicina, le differenze diventano sempre più fonti di divisione. Le rivalità ignorate emergono quando il potere è vicino.

In secondo luogo, occorre disapprovare gli islamisti. Le manifestazioni di massa egiziane dopo un anno di governo dei Fratelli musulmani ne sono la prova eclatante. Altri segnali arrivano dall’Iran (dove gran parte della popolazione disprezza il governo) e dalla Turchia (dove le preferenze elettorali per il partito islamista al potere hanno subito un calo del 20 per cento).

Se queste tendenze dovessero continuare, il movimento islamista non può avere successo. Qualcuno già parla di un’era “post-islamizzazione” in corso. Nelle parole del sudanese Haidar Ibrahim Ali:

Stiamo assistendo alla fine dell’era politica dell’Islam, iniziata a metà degli anni Settanta, che sarà rimpiazzata da ciò che l’intellettuale iraniano Asef Bayat ha definito un’era di “post-islamizzazione”, che si ha quando politicamente e socialmente, dopo un periodo di tribolazioni, la vitalità politica dell’Islam perde attrattiva anche tra i suoi più ferventi sostenitori e fanatici.

Questi problemi offrono spiragli di ottimismo ma non di compiacimento, perché le linee di tendenza possono cambiare di nuovo. Ma la sfida di emarginare l’islamismo rimane aperta.

Le tre forze politiche mediorientali

Da un punto di vista occidentale, le forze politiche mediorientali si dividono in tre: l’islamista, la progressista e quella bramosa. Ognuna richiede un approccio specifico.

Dobbiamo rifiutare tutto ciò che è islamista. Per quanto possibile, questo comporta non avere a che fare con gli islamisti, che siano apparentemente democratici come il partito al potere in Turchia o maniacali come le milizie dell’Isis, poiché tutti aspirano allo stesso terribile obiettivo di imporre la legge islamica. Proprio come si aborrisce il fascismo si dovrebbe esecrare l’islamismo. Detto questo, avendo instaurato importanti rapporti con la Turchia, l’Arabia Saudita e con altri paesi, la ragion di Stato impone dei compromessi tattici.

Al contrario, dobbiamo sempre prediligere quei cosiddetti liberali, moderni e laicisti, come i manifestanti di Piazza Tahrir, perché essi aspirano a un Medio Oriente migliore e sono la speranza della regione. Noi occidentali siamo il loro modello; guardano a noi per un aiuto morale e pratico. L’Occidente deve appoggiarli perché puntano a un futuro migliore, per quanto distanti essi siano dai corridoi del potere e per quanto infelice sia la loro situazione.

Il terzo gruppo, quello formato dagli avidi sovrani, emiri, presidenti e dittatori, richiede più sfumature. Dobbiamo cooperare con loro, ma dobbiamo anche esercitare costantemente pressioni su di loro affinché apportino dei miglioramenti. Ad esempio, ad eccezione del biennio 2005-2006, i governi occidentali non hanno fatto pressioni su Hosni Mubarak, il tiranno che governò l’Egitto per trent’anni; non hanno incoraggiato la partecipazione politica, sostenuto lo Stato di diritto né hanno preteso la garanzia delle libertà personali. Se lo avessero fatto, l’Egitto si troverebbe in una posizione migliore.

In sintesi: rifiutiamo gli islamisti, accettiamo i progressisti e trattiamo con circospezione i dittatori.

La politica americana

Negli ultimi quindici anni, la politica estera statunitense è stata del tutto incoerente.

George W. Bush, mosso da nobili sentimenti, ha cercato di ottenere troppo in Medio Oriente – un Iraq libero e prospero, un Afghanistan trasformato, trovare una soluzione al conflitto arabo-israeliano, instaurare dappertutto la democrazia. Cozzando contro le dure realtà della regione, Bush ha fallito in tutti i suoi sforzi.

Barack Obama ha fatto il contrario – troppo poco – e anche lui ha fallito. In sintesi, la sua cosiddetta dottrina potrebbe suonare in questo modo: “Sottovalutare gli interessi degli Stati Uniti, trattare male gli amici e ottenere il consenso”. Obama ha ignorato la ribellione iraniana, ha abbandonato gli alleati di vecchia data, ha cercato di andarsene dalla regione per ribilanciare in modo progressivo e costante la presenza e gli interessi statunitensi dal Medio Oriente verso l’Asia,

Questa visione ne fa un americano di sinistra e non un outlier. Sebbene sia nato ed allevato come un musulmano questo background non ha un impatto percepibile sulle sue politiche. Le sue opinioni politiche da sole spiegano la sua visione.

L’Iran è l’unica (inspiegabile) eccezione a questo schema: gli ultimi sei anni e mezzo rivelano che l’Iran – e non la Cina, la Russia, il Messico, la Siria o Israele – ha rappresentato una priorità assoluta della politica estera di Obama.

Io suggerisco una politica statunitense a metà tra questi due estremi, che sia caratterizzata dalla protezione degli americani e degli interessi americani. Promuovere gli interessi americani offre una linea guida per decidere dove essere coinvolti e dove no. Questo ha anche un impatto favorevole sui paesi alleati, come il Canada.

Conclusioni

Una regione famosa per i suoi problemi offre anche qualche buona notizia. La tirannia è più vacillante rispetto a cinque anni fa. Gli islamisti sono stati indeboliti dalle loro lotte intestine e dall’impopolarità. Paesi come la Siria e l’Iraq stanno morendo, il Kurdistan sta emergendo. Israele è fiorente. I Paesi arabi del Golfo, soprattutto Dubai e Abu Dhabi, stanno sperimentando nuove strade verso la modernità. Pertanto, in mezzo a questo mare di disgrazie e anche di orrori c’è qualche filo di speranza in Medio Oriente. I decisori politici devono tenerlo presente e lavorarci sopra.

 

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