Li chiamavano i bambini di Leuca, figli di giovani madri con un futuro incerto e un passato spezzato. Venivano al mondo nell’ospedale di Santa Maria di Leuca, che allora era a pochi metri dalla spiaggia, circondati dal sole e dall’odore del mare, che per i loro genitori significavano molte cose ma sopratutto la libertà.
Sono duecentocinquanta i bambini ebrei nati nei campi di transito salentini alla fine della seconda guerra mondiale da famiglie sopravvissute ad Auschwitz. Le loro risate, per chi aveva perso tutto tranne la vita, davano un po’ di speranza nel futuro.
A seguito della pubblicazione dell’articolo di Sivan Kotler riceviamo e pubblichiamo le foto di Mirko Moreiro
Una famiglia non ce l’aveva più nessuno. Qualche frammento, magari: un padre, una zia, un parente lontano, nient’altro. Anche per questo in tre anni sono stati celebrati trecentocinquanta matrimoni. Un modo per sfidare la morte – vista da vicino – con la voglia di vivere e di costruirsi una casa.
Non lontano dalle spiagge, nei luoghi che prima della guerra erano case vacanze lussuose e ora erano ville abbandonate, erano stati fondati dei kibbutzim. Ognikibbutz aveva la sua ideologia politica, ma il valore sovrano era lo spirito di condivisione. Nelle scuole costruite lì accanto, i bambini imparavano a leggere e a scrivere.
Erano campi profughi, un periodo di transito, che grazie all’antica tradizione italiana di salvare e assistere chi si trova in difficoltà divenne una specie di periodo di convalescenza, un passaggio lungo tre anni dall’inferno a una vita normale ancora tutta da vivere.
In quegli anni i rapporti tra i salentini e gli abitanti ebrei dei campi erano molti e di vario tipo. Una giovane donna decise di regalare il suo vestito di matrimonio a una ragazza ebrea e gli uomini ebrei aiutavano i pugliesi nei lavori pesanti, nascevano amicizie tra i giovani, un abitante di Tricase scambiò la sua fisarmonica con un pezzo di pane bianco arrivato ai profughi con gli aiuti internazionali, mentre gli ebrei vendevano le coperte americane ai salentini, che ci cucivano i cappotti per l’inverno.