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Dopo la serie di attentati dei giorni scorsi, c’è sempre qualcuno che corre (giustamente) a dire: questo non è l’islam. Sono d’accordo, del resto se così fosse avremmo 1,3 miliardi di terroristi. Non hanno quindi senso le tesi che tendono a criminalizzare un’intera religione.

Altra cosa invece è andare oltre la frase “questo non è islam”. E cioè: se non è islam, cos’è? Rispondere a questa domanda ci può rivelare chi abbiamo davanti. Di solito le risposte sono:
1) il terrorismo è colpa delle guerre di Bush, o degli Usa o della Cia o di Israele
2) sono singoli che nulla hanno a che fare col vero islam
3) il terrorismo è colpa del colonialismo
4) l’Isis è stato creato da interessi nascosti (laddove per nascosti si intende ovviamente americani)

Queste sono le risposte classiche di chi non vuole assumersi alcuna responsabilità, preferendo scaricare tutte le colpe sugli altri o minimizzando. Ma così è troppo facile. Se si vuole risolvere un problema, bisogna partire da un’analisi reale delle responsabilità di ciascuno. Vale per le singole persone come per le comunità. Come mi disse uno psicologo dei suoi pazienti: quando oltre le responsabilità degli altri si iniziano a indagare anche le proprie, allora siamo già sulla strada della guarigione. Ma fino a quando le colpe sono sempre e solo degli altri, non ne usciremo mai.

Oltre alla mancanza di autocritica di cui è vittima parte dell’islam, c’è invece un altro fenomeno che colpisce soprattutto il mondo occidentale, ma non solo: quello della rimozione dei problemi. La tendenza cioè a non volere vedere un problema perché non lo si vuole affrontare. Il fenomeno della rimozione è a mio parere tipico della realtà in cui viviamo, se pensiamo all’Isis. Che questo movimento di terroristi spietati sia un problema, ormai l’hanno capito pure i sassi. Se si parla di cosa fare però, si comincia a parlare di immigrazione, moschee, Libia, Europa, e così via. Di tutto si parla insomma, tranne che del punto vero: l’Isis come Stato già esiste, e va abbattuto. Da qui deve cominciare la battaglia per vincere la guerra.

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Per questo è grave che le telecamere del mondo non siano a Kobane. Perché proprio lì stanno combattendo per noi degli eroi, uomini e donne curdi, cui stiamo cinicamente delegando la guerra per la nostra libertà. Da qualche mese diamo assistenza aerea, dall’alto. Ma nessuna pressione sulla Turchia che strizza l’occhio all’Isis e lo protegge (in funzione anticurda, nella migliore delle ipotesi). La disattenzione dei media su Kobane è fragorosa. E’ come se l’Occidente fingesse di non vedere che l’Isis esiste come entità statuale e sta combattendo per affermarsi sul terreno. Si vorrebbero bloccare i terroristi qui, senza però occuparci della fonte del problema. Come se pensassimo di abbassare la febbre senza curare l’influenza che ne è la causa.

Stupisce pensare che non sia ancora nata una coalizione mondiale contro l’Isis. O che nessuno abbia nemmeno provato a lanciarla. Non foss’altro per vedere chi ci starebbe e chi no, svelare i bluff di tanti Paesi, e misurare la distanza tra le parole e i fatti. Ho come l’impressione che non si voglia affrontare il problema e si stia facendo come gli struzzi, che mettono la testa sotto la sabbia. Il problema è che per l’Isis le teste stanno sotto la sabbia per restarci, magari staccate dai loro corpi da affilate lame. E noi stiamo dimenticando che il collo può servire non solo ad inchinarsi alla paura o voltarsi dall’altra parte, come stiamo facendo, ma anche ad alzare la testa e ad affrontare e guardare in faccia il Male.
Davide Romano
Portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, conduttore televisivo, scrittore, autore di opere teatrali, collabora con La Repubblica – Milano

 

 

One Response to IC7 – Il commento di Davide Romano

  1. Claudio ha detto:

    Opinione sensata e condivisibile

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