14 Jun 2015
Ariel Shimona Edith Besozzi

“We do not rejoice in victories. We rejoice when cotton is grown, and when strawberries bloom in Israel” Golda Meir

Rav Shlomo Efraim ben Aaron Luntschitz (1550 – 1619 ) nel Kli Yakar suggerisce che la missione degli esploratori (Parashà della scorsa settimana Shelàkh) fallì perché era composta da soli uomini, non vi era fra i loro componenti una sola donna. Se essa fosse stata voluta dal Signore sarebbero state mandate delle donne “le quali sanno come si ama la terra d’Israele, molto più degli uomini”.
Ho trovato questa osservazione molto interessante poiché nello spiegare uno degli episodi più complessi e dolorosi della storia del popolo ebraico successivo all’uscita dall’Egitto mette in luce il fondamentale ruolo delle donne, nella comunità ebraica. Questo, sia nei tempi in cui l’episodio si svolgeva, sia in un’epoca di molto successiva (quella nella quale il celebre commentatore scrive), evidenziando un ruolo significativo ed unico rispetto al panorama del ruolo delle donne nelle altre culture.

Se l’idea di mandare degli esploratori non fosse nata dalla paura ma dal Signore, sarebbero state mandate delle donne poiché esse sanno come si ama la terra d’Israele? Davvero? Lo sappiamo dire? Siamo in grado di vivere questa sapienza?
Ogni volta che mi capita di leggere commenti come questi mi rendo conto di quanto la nostra tradizione sia in grado di conoscere e riconoscere alle donne caratteristiche e ruoli che noi stesse fatichiamo a riconoscere per noi e quindi ad agire, particolarmente la dove lasciamo che una tradizione che non è la nostra ci descriva in una libertà che è tutto fuorché libertà.
Rispetto ad un certo pensiero femminista volto solo alla rivendicazione di un’eguaglianza che divine snaturamento, ritengo sia necessario dire me stessa in quanto altra dall’uomo, e che questo avvenga anche da parte dell’uomo, che sia in grado di vedermi e descrivermi proprio a partire da quanto siamo differenti. Credo che la ricchezza della nostra etica stia anche nel saper dire ed agire questa differenza, nell’affermarla concretamente. Siamo diversi, maschio e femmina, differenti, complementari, speculari, soltanto dalla relazione costante tra queste due essenziali differenze è possibile l’espressione piena e armoniosa di una identità e per fare che ciò sia è necessario che noi impariamo a nominare questa differenza ed a lasciarci nominare in questa dall’altro.
Non lasciamo che aspirazioni, anche legittime, di riconoscimento esterno, ci portino allo snaturamento di noi stesse, alla rinuncia della nostra peculiarità.
Piuttosto chiediamoci cosa possiamo restituire alla nostra comunità, alla nostra tradizione dicendo e vivendo il nostro amore per la Terra d’Israele? Quanto Israele è frutto di una storia e di una tradizione che non ha mai fatto a meno delle donne?
Nell’esprimere la nostra profonda appartenenza alla nazione ebraica ed il nostro amore per il rinato Stato d’Israele noi sappiamo che la relazione con la Terra è una relazione d’amore, profondo e reciproco e che questo è uno degli elementi essenziali della nostra identità nazionale.
Israele entra in Israele quando riconosce il proprio legame, quando impara il proprio amore, quando abbandona la paura ed agisce nella consapevolezza e nella fede.
Avremmo potuto, in qualche modo, che non fosse necessario dissolvere la paura lasciando morire una generazione nel deserto?
Forse, se avessimo avuto fiducia nel Signore, prima di tutto, e se avessimo affidato alle donne l’osservazione della terra così che queste potessero tradurla immediatamente in relazione d’amore, come poi fecero, insieme a tutto il popolo. Come accade oggi perché “am Israel chai”!

Ariel Shimona Edith Besozzi

 

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