2015/04/20Comunità EbraicheTag:Elio Toaff, Giacomo Kahn, Roma, Shalom

“Ho commesso un solo peccato nella mia vita, ho rubato un carro armato tedesco e l’ho inviato in Palestina”. Così raccontava ridendo nella sua ultima intervista, che il rabbino Elio Toaff rilasciò al giornale Shalom, in occasione del suo 95mo compleanno

L’età non lo ha abbattuto ed Elio Toaff, la più fulgida e illustre personalità vivente dell’ebraismo italiano, ha deciso di interrompere un forzato riposo dovuto a due dolorose fratture per concedersi in una lunga intervista a Shalom, in occasione dei suoi 95 anni. Ci accoglie con un grande sorriso, in un salotto tappezzato di simboli e documenti (menoroth, mezzuzzoth, ketubot), di libri, di fotografie (spicca nella libreria quella del rebbe dei Lubavitch Menachem Mendel Schneerson, quasi a voler smentire tutte le dicerie che negli anni lo volevano contrapposto al movimento ortodosso dei Chabad), di stampe antiche fra cui quella del vecchio tempio di Livorno (distrutto dai bombardamenti) posto simbolicamente sull’architrave della porta di ingresso.

Risponde con tranquillità e pacatezza ma soprattutto con grande ironia – doti che gli sono sempre state riconosciute – e non sono mancati momenti di vera e propria ilarità, fin dall’inizio dell’intervista: “Sono onorato che una Fondazione porti il mio nome con l’obiettivo di diffondere la Cultura ebraica, una cultura che a volte però non hanno nemmeno gli stessi ebrei”.
L’ironia di rav Toaff, a volte un vero e proprio disincanto, nasce non solo dalle sue radici toscane, dalle esperienze anche drammatiche vissute (risparmiato sul ciglio della fossa stava per essere fucilato dai nazisti), dalla profonda cultura anche umanistica, ma soprattutto come lui stesso confessa “dall’aver sempre vissuto in mezzo alla gente anche e soprattutto la più umile e la più semplice. Bisogna fare attenzione: a volte i rabbini stanno troppo dietro le cattedre”.

Come è nata l’idea di diventare rabbino? Lei avrebbe potuto, ad esempio, intraprendere una carriera giuridica?

“E’ vero, avevo preso la laurea in giurisprudenza a Pisa, ma avevo davanti a me l’esempio di mio padre, capo rabbino di Livorno, e sentivo che quella era la mia missione. E da mio padre ho ereditato una certa concezione dell’ebraismo italiano aperto e tollerante, fatto di usi, di costumi, di tradizioni e che oggi vedo sempre più affievolirsi verso l’accoglienza di nuovi modelli e di nuovi usi”.

Suo padre, Alfredo Sabato Toaff, è stato un personaggio straordinario di statura internazionale, grecista di chiara fama e allievo di Giovanni Pascoli. Come era come padre?

“Era un padre tutt’altro che burbero, anzi era affabile, aperto, disponibile al dialogo con i figli e gli studenti. Anche per questo casa nostra era frequentata da giovani che venivano da ogni parte. Sono stati gli anni, ad esempio, in cui ho costruito un’amicizia che non si è più sciolta con il Presidente Carlo Azeglio Ciampi”.

Dovendo oggi giudicare, pensa che sia più difficile il ruolo di padre o quello di figlio.

“È meglio essere nonni, liberi da ogni peso e da qualsiasi responsabilità”.

La sua famiglia era ovviamente molto osservante. Come si viveva la fede? C’era allegria o era più forte il timore del giogo divino?

“Era una religiosità vissuta con allegria, nella quale non è mai mancata la discussione, il dibattito, il confronto delle idee e delle opinioni. In quell’ambiente ho imparato che anche con le persone che ti sembrano apparentemente lontane nelle idee e nei valori si può trovare, con il dialogo e con la perseveranza, un piano comune per intendersi”.

La generazione di suo padre è la generazione di altre altissime figure come Shemuel Zvi Margulies, Dante Lattes, Elia Benamozegh, Dario Disegni e poi successivamente di Menachem Emanuele Artom, Alfredo Ravenna, David Prato, Raffaele Cantoni, Carlo Alberto Viterbo. I rabbini dello scorso secolo erano diversi da quelli di oggi?

“Ogni generazione ha i suoi rabbini, anche se non tutti sono dello stesso calibro e questo spesso non può che derivare dal contatto con la società dalla quale non bisogna astrarsi ma nella quale bisogna vivere, nella quale bisogna immergersi profondamente. La società di oggi mi appare forse con un minor senso del divino perché ha perso la spinta ideale che caratterizzò la nostra generazione, uscita da immense tragedie e lutti”.

Si può quindi fare a meno di Dio? Si può vivere senza Dio o senza un sentimento religioso?

“Io non potrei”.

Dopo l’esperienza di capo rabbino ad Ancona e a Venezia, nel 1951 alla relativa giovane età di 36 anni divenne capo rabbino della più importante comunità italiana. Perché il Consiglio scelse lei? Non ebbe paura di una così grande responsabilità?

“Infatti, non volevo diventare capo rabbino di Roma. Fu Raffaele Cantoni che mi ci costrinse, senza alcuna possibilità di dire no. Non mi sono poi mai chiesto perché avessero scelto proprio me”.

E’ vero che subito dopo la nomina chiamò Dante Lattes per avere qualche consiglio?

“Si. Mi disse di non aver paura di quello che poi mi sarebbe venuto incontro, ed aveva proprio ragione. Sono stati anni molto complicati: la comunità dopo la razzia nazista, le deportazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine era praticamente a terra, sia da un punto di vista morale, che di partecipazione, oltre che ovviamente da un punto di vista economico con una qualità della vita veramente scarsa. Quel monito, di attraversare il mondo, di vivere la vita e le vicende umane senza aver paura, mi è sempre rimasto nel cuore e nella mente. E’ lo stesso monito del grande cabbalista Rabbi Nachman di Breslav quando insegnava che ‘il mondo è come un ponte molto stretto che si deve attraversare senza avere alcuna paura’”.

Perché non chiese un consiglio anche a suo padre?

“Perché non me lo avrebbe dato, ma mi avrebbe detto: scegli e comportati secondo gli insegnamenti che hai ricevuto”.

A 36 anni diventa il rabbino più importante d’Italia di una comunità lacerata da profonde contraddizioni: con la più lunga storia e tradizione italiana, i suoi minaghim, ma anche con un livello di osservanza bassissimo. Ad esempio la casherut era seguita da una piccolissima minoranza.

“E’ vero. Pensi che in occasione della mia investitura fui invitato ad un rinfresco da un’importante famiglia e trovai al centro della tavola un bel maiale, mentre per me avevano riservato un vassoio in un angolo di un tavolino. Per educare al rispetto della Torà, per diffondere cultura e conoscenza, per far crescere l’osservanza delle mitzvot c’è voluto tempo, pazienza, ma soprattutto l’aiuto e la collaborazione di tutti i miei rabbanim. E’ anche per questa ragione che ho dedicato la maggior parte del mio tempo e del mio impegno all’educazione, alla formazione di nuove generazioni, agli studenti e ai ragazzi dai quali, ancora oggi, ricevo commoventi attestazioni di amore. E’ stata un’attività che ho sempre considerato fondamentale”.

Lei è stato un rabbino moderno, oltre che per le sfide legate alla contingenza, anche come sostenitore dell’idea sionistica, non soltanto collaborando con Ada Sereni alla “immigrazione illegale” (Aliyà Beth) verso la Palestina, ma ospitando in casa i profughi provenienti da tutta Europa, raccogliendo soldi, nascondendo persino armi.

“Si è vero.Venezia era il luogo di attività delle Alyot clandestine è da lì era organizzati i trasporti per la Palestina. Io stesso nascosi sia persone che armi nella cantina, armi che sarebbero poi dovute essere spedite per fornire l’Haganà. Ma il mio vero capolavoro è stato il furto – un peccato di cui non mi sono mai pentito – di un carro armato tedesco ‘Tigre’ che era stato abbandonato nelle campagne modenesi. Doveva essere demolito, ma la Palestina aveva un disperato bisogno di armamenti pesanti e allora io camuffai il carro armato e lo spedimmo in nave facendolo passare come attrezzatura agricola. E’ così che giunse a Haifa il primo carro armato del futuro esercito di Israele. Ma non ero solo io ad essere sionista, lo è stata tutta la mia famiglia. Due miei fratelli partirono per la Palestina nel 1938 e sarei partito anche io se mio padre non mi avesse fermato con le parole: “un rabbino non abbandona la sua comunità”.

La sua modernità, la sua capacità di essere diventato personaggio pubblico, corrisponde anche – per così dire – ad un primato negativo: è stato il primo rabbino italiano a dover vivere sottoscorta.

“Non è un bel primato. Già negli anni ’50 la comunità dovette sostenere il neo fascismo che imbrattava con scritte antisemite le vie di Roma. Tutto iniziò poi quando il mio nome fu trovato in alcuni documenti in Libano. Mia moglie della scorta non ne poteva più, perché non aveva quasi più vita privata e non poteva essere libera di uscire con me, anche solo semplicemente per fare degli acquisti”.

L’intervista è finita, anche se le domande sarebbero ancora tante e il desiderio di ascoltare il ‘moreno’ (il nostro Maestro) non si esaurisce in una chiacchierata di circa un’ora: tanti sono i ricordi e le curiosità che vorrebbero essere esaudite. Ci lascia con un sorriso ironico e con un’ultima brillante battuta: “Sa, mi sto preparando per la grande serata del 3 maggio (quella in cui verrà presentata la Fondazione che porterà il suo nome, ndr.): sto allenandomi. Chi sa quante mani dovrò stringere”.

Giacomo Kahn

 

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