LE DONNE CHE DISSERO NO AL FARAONE
31 Mar 2015
Ariel Shimona Edith Besozzi
Finito Purim nelle nostre case si comincia a pensare a Péssach. In realtà molte di noi ci pensano già da diversi mesi e gestiscono le scorte in maniera da ridurre la presenza di chamètz. Le pulizie che coinvolgono tutta la casa sono di norma molto approfondite e non possono essere fatte troppo presto ma neppure troppo tardi; devono essere strutturate ed organizzate così da giungere esattamente a Péssach.
Qualcosa di simile accade con Shabbat: ognuna di noi dedica la settimana, a partire da domenica, alla sua preparazione; è come se le nostre energie fossero indirizzate sempre in maniera equilibrata in parte alla vita quotidiana, con tutte le sue incombenze, ed in parte, una parte che da minore diviene tutta come una luna crescente, alla preparazione dello Shabbat e delle feste. Questo in continuo ciclo che esprime nella propria pienezza sia il compimento che la base sulla quale ogni giorno si dona e restituisce. Permettendoci di conservare dentro la nostra vita uno spazio intimo e sacro dedicato, praticamente e non solo teoricamente a D-o. Questa necessità di fare coinvolge in pieno la nostra vita, la scandisce, ne alimenta e ne struttura l’essenza e ci permette anche di conoscere e riconoscere il nostro essere sempre all’interno di una prolifica relazione di scambio che alimenta la nostra tradizione e la nostra vita tutta.
A Péssach noi ricordiamo d’essere uscite dall’Egitto, a Péssach noi rimpariamo ogni anno ad uscire dalla schiavitù. Non si tratta di una fuga, di una abbandono, si tratta di un’uscita, si tratta di un processo che determina il compiersi di una serie di azioni ed è reso possibile da altre azioni.
Ci sono la azioni audaci poste in essere da Shifrà e Pu’à, le levatrici che, avendo timore di D-o non eseguono l’ordine del faraone e non uccidono i neonati ebrei; c’è la madre di Moshè, Yokhèved (identificata dal Midràsh con la stessa Shifrà) che lo nasconde per tre mesi, Miryàm (Pu’à, secondo il Midràsh) che sorveglia la cesta affidata alle acque nella quale giace Moshè, che sarà poi al fianco di questi alla guida del popolo ebraico che attraverserà il deserto. Ognuna di queste donne decide di non fare ciò che viene ordinato, lo fa sapendo che esiste un ordine, un percorso, una dimensione che trascende quell’istante e che domanda un gesto coraggioso di rottura capace di produrre qualcosa che renderà possibile l’uscita dell’intero popolo ebraico dalla schiavitù. Per questo ognuna di noi è chiamata ogni giorno, ogni anno a compiere determinati gesti per fare memoria e per ritrovare in sé il percorso che permette l’uscita dalla schiavitù ma anche a compiere entro la propria vita, nello svolgimento delle proprie funzioni, se necessario, un gesto straordinario capace di rompere, di non eseguire un ordine sbagliato.
Ognuna di noi, in ogni momento, in ogni luogo è chiamata a riconoscere soltanto a D-o ciò che è di D-o e per questo a non fare ciò che sappiamo non essere in accordo con ciò che ci è stato insegnato attraverso la Torà, perché sapere dire di no ad un ordine per timore di D-o è il primo passo che permette a noi stesse e forse ad un intero popolo di uscire dalla schiavitù.
Per questo, Péssach, ogni anno ci domanda di uscire dall’ordinarietà, di fare memoria, ci domanda di elaborare e riconoscere le nostre schiavitù per uscirne.
Ariel Shimona Edith Besozzi
da “Latte e Miele” speciale Péssach
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