La luce di Israele, che non si lascia spegnere
Testata: Informazione Corretta
Data: 16 dicembre 2014
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli.
A sinistra: un Giuda Maccabeo in edizione bambini.
Cari amici,
questo pomeriggio al tramonto inizia la festa ebraica di Hanukkah. Gli ebrei accendono una luce su un candeliere (in realtà due, ma una è solo di servizio) e recitano una preghiera di ringraziamento per i miracoli compiuti in loro favore “in quei giorni, in questo periodo”. Si allude a duemila anni fa, come vedremo, ma il testo si può leggere facilmente come riferito anche a oggi: in quei giorni, in questo tempo. Domani le luci saranno due, dopodomani tre, fino a otto, quando dopo una settimana si conclude la festa. L’episodio cui ci si riferisce è una sconsacrazione del Tempio di Gerusalemme compiuto dai “greci” o piuttosto gli ellenizzanti che dominavano su Israele nel secondo secolo prima della nostra era; ci fu una rivolta popolare che cacciò gli invasori e intese restaurare il culto nel Tempio secondo le regole; ma perché questo avvenisse la prima cosa da fare era riaccendere il lume perenne che ne connotava la funzione. Sennonché per il lume poteva essere usato solo un olio particolarmente puro, che era stato tutto contaminato dagli idolatri; alla fine se ne trovò solo un’ampolla, buona per una giornata al massimo, mentre ce ne volevano otto per prepararne adeguatamente di nuovo; ma l’olio miracolosamente durò il tempo necessario.
Fin qui il racconto miracoloso, che è facile interpretare metaforicamente come la sopravvivenza della piccola luce dell’ebraismo anche quando sembrano mancare le condizioni materiali per la sua sopravvivenza. Ma quel che interessa qui sottolineare è che questo racconto del miracolo è l’episodio marginale e allusivo che resta nella liturgia ebraica di un momento decisivo e esemplare, la guerra, in buona parte guerra civile che fu combattuta in quegli anni intorno alla prospettiva dell’assimilazione della provinciale e localistica cultura ebraica alla civiltà globalizzata del tempo, quella dell’ellenismo. Senza entrare nei dettagli sui singoli personaggi, ci fu da parte dei governanti d’allora, eredi dei generali di Alessandro Magno o loro collaboratori locali, una pressione violenta per estirpare gli usi e le tradizioni ebraiche, la forma di vita di Israele. Di qui la rivolta guidata dai Maccabei che riuscì a ristabilire uno stato ebraico autonomo fino all’invasione romana. La festa non si incentra su questo, forse perché il nuovo regno degli Asmonei divenne in breve altrettanto ellenizzante dei “greci” rovesciati; per questa ragione i libri dei Maccabei che rievocano la rivolta non sono entrati nel canone ebraico.
Ma nella festa, in quella luce esile di un lume che via via si fa più forte e capace di vincere il buio, la riconquista dell’autonomia è ricordata. Ed è un fatto storico decisivo perché per la prima volta non era in gioco tanto la vita e la libertà fisica dei singoli ebrei, quanto la loro identità collettiva, la sopravvivenza culturale. Gli oppressori non volevano sterminare il popolo ebraico: solo raramente l’antisemitismo assume chiaramente la forma eliminazionista di Aschwitz, spesso quel che vuole è “cambiare la testa”, convertire, assimilare gli ebrei, togliere loro quella “perfida ostinazione” che impedisce loro di vedere la bellezza dell’Ellenismo, o del Cristianesimo, o dell’Islam, o del Marxismo o della moderna religione universalista. Naturalmente per eliminare il particolarsimo ebraico un po’ di coercizione ci vuole proprio per quel carattere ostinato di cui si lamentavano i padri della Chiesa e Lutero, Voltaire e Kant e Maometto, Marx e oggi i saggi burocrati di Bruxelles; e dunque le sante e benintenzionate campagne di conversione e di incivilimento sono sempre più o meno violente, la scelta è fra mangiare maiale e morire arrostiti come si racconta dei fratelli Maccabei; fra il battesimo e il rogo, come capitò tanto spesso in Europa dalle Crociate alla Spagna dell’Inquisizione, fra la dichiarazione di fede islamica e il coltello del macellaio, fra la fede marxista e la Siberia.
Hanukkah festeggia la prima vittoria ebraica su questi ricatti: una vittoria che consiste nel sopravvivere non solo individualmente ma collettivamente, non solo fisicamente ma culturalmente. Di ricatti del genere ce n’è stati continuamente nei 22 secoli che sono passati da quella rivolta. E ancora oggi si discute se lo stato di Israele abbia il diritto di voler essere ebraico o se bisogni cercare di cancellare l’anomalia di quella stella di Davide in mezzo a decine di bandiere con la croce o con la mezzaluna. Il punto è questo: mantenere viva la scintilla, farla durare molto più di quanto non si crederebbe, non perdere l’identità, mantenersi saldi. Perché in ebraico la fede (o fiducia, o fedeltà) si dice emunà, che in primo luogo vuol dire saldezza, se volete ostinazione. E alle lodi di Dio (quelle berakhot che si usano tradurre impropriamente con benedizioni), si risponde “amen”, che non vuol dire tanto “acconsento”, quanto “sono saldo” o se volete “mi ostino”. Ad essere me stesso, in primo luogo, a mantenere il mio rapporto con la mia storia, col mio popolo e col nostro incontro col Divino.
Per questo auguro ai miei amici Hanukkah sameach, buona Inaugurazione (questo è il significato della parola Hanukkah: inaugurazione, consacrazione, nel senso di riapertura del tempio). Una inagurazione che conserva, perpetua e rinnova, che non cessa di splendere, come “in questi tempi” fa Israele.
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