Bersaglio da dieci anni di attacchi indiscriminati dei palestinesi gli abitanti giurano: li faremo smettere, siamo noi i più forti.
Cosa fa una guerra a un uomo? Cosa creano dentro tutti questi missili che ci inseguono ogni cinque minuti mentre viaggiamo lungo il confine con Gaza? Che ritroveremo la sera a Tel Aviv, a Gerusalemme? Paura? Tensione? No, a ogni bum, a ogni sirena, gli israeliani di Sderot, dei kibbutz di confine, ma anche i ragazzi disinvolti di Tel Aviv, o i quieti giovani gerusalemitani esprimono determinazione, resistenza indefinita, rabbia, vogliono farli smettere, «quegli idioti che marciano verso la loro distruzione, noi siamo più forti» dice Zafrir mentre corriamo insieme verso un bunker.
Ma soprattutto questa guerra (lo stesso nemico, le stesse modalità, la stessa insensata sordità internazionale) non ti fa paura: ti spezza il cuore, ti fa tristezza. Non finirà mai il rifiuto arabo verso questo piccolo Stato, sospira Maria, una mamma argentina di Ashkelon. La sera del venerdì, vigilia del Sabato, i carrarmati sono allineati in numero inconsueto. Presso Gaza, i soldati religiosi nell’esercito coinvolgono anche i laici nel loro abbraccio di solidarietà ballando in cerchio. Sono insieme nello stesso senso di missione, la loro vita è in ballo se arriverà l’ordine che ormai si aspetta di minuto in minuto almeno per alcune unità speciali: fra poche ore il buio di Gaza, un milione e 800mila abitanti, che guarda da vicino, potrebbe inghiottire i passi dei soldati che devono fermare la pioggia di missili che ha bloccato la vita di una nazione. Hamas seguita a bombardare da quella città-belva selvaggia e ferita che vediamo dall’altro lato del confine oltre la sabbia; una città moderna, con i suoi grattacieli, i suoi vicoli dove ci siamo avventurati tante volte per intervistare degli speciali, particolari protagonisti dell’era moderna, i terroristi. Gii aerei israeliani ruggiscono e bombardano la loro risposta, il numero dei feriti e dei morti si moltiplica. Gaza non produce oggi, come tutto il mondo sperò con lo sgombero nel 2005, agricoltori, scienziati, non esperti di tecnologia, ma soprattutto missili e integralisti islamici, una produzione speciale addobbata di nero e verde, con cappucci, mitra, scuole che insegnano ai ragazzini terrorismo suicida. La proposta di Obama di mediare, insieme alla poca voglia dell’esercito e di Netanyahu di infilarsi più a fondo in un’avventura che può costare la solita criminalizzazione internazionale non ha spostato Hamas: «non è interessata a nessuna mediazione», la vita deve essere dedicata a distruggere Israele, uccidere gli ebrei, odiare cristiani, non accettare patti nè oggi nè mai.
La logica di questi missili che ci cadono intorno ad ogni minuto, lo svuotamento progressivo delle loro riserve di Kassam, Grad, Katiusha uno dopo l’altro lo si capisce solo come la politica di un vinto che cerca attenzione, alleati, denaro, dopo che l’Egitto li ha abbandonati. Guardando quelle case, dispiace per gli abitanti schiavi di un sistema dittatoriale che non ammette defezioni. Là in mezzo sono piantate le rampe di lancio e le basi dei terroristi cui Israele dà la caccia: proprio ieri uno dei più importanti leader, Khaled Mashaal, ha intimato di non lasciare le case come invece richiedono con telefonate e volantini gli israeliani ogni volta prima di mirare. L’ordine di essere scudi umani arriva fino alla pretesa che la gente salga sui tetti.
Scendiamo verso il sud di Israele costeggiando la Striscia che fu sgomberata nel 2005 lasciando Gaza nelle mani di Hamas: la radio recita tutto il rosario dei nomi più strani e di quelli più importanti, da Gan Yavne a Tel Aviv. Più si scende verso Gaza più risuonano i nomi di Beersheba, Ashkelon, Ashdod, Sderot, i razzi ti inseguono a ogni passo. Se c’è la sirena e viaggi il Fronte Interno chiede di scendere dall’auto e sdraiarti per terra, altrimenti addossarsi a un muro. A pochi metri di distanza sulla strada può cadere una bestia bruciante che crea un cratere di morte. Ma la gente si salva perchè ci sono rifugi ovunque, perchè ubbidisce senza discutere agli ordini. La sirena suona forte davanti alla fabbrica di Sderot «Denver» che dopo la distruzione totale il 28 giugno, ha già ricominciato fra le rovine nere e il puzzo a produrre allegri, paradossali bidoni di blu, verde, viola. Due missili proprio davanti agli occhi abituati del padrone Baruch Kogen vengono verso di noi, inseguiti dal sistema «cupola di ferro» il cavaliere salvatore di Israele, che tutti lodano. Ecco due nastri bianchi nel cielo, «cupola di ferro» prende il razzo per la coda, lo insegue, lo distrugge. Il secondo invece arriva con un bum a pochi metri da noi. Kogen ha costruito anche una grande scatola di ferro blindata dentro la fabbrica: nel giro di dieci anni Sderot è stata colpita da 8700 missili.
Noam Bedein, un giovane abitante del luogo, spiega che la città è blindata casa per casa con una spesa di milioni di dollari da quando un bambino è stato ucciso quando la sua mamma ha dovuto scegliere quale dei due figli estrarre dall’auto al suono della sirena. Da allora i rifugi stanno nel cuore della casa, ammobiliati, con letti in cui dormono tutti insieme genitori e figli, le rovine punteggiano la città, una delle guide che ci porta a vedere la città vuole che notiamo come è pulita, fiorita, e piange quando siamo costretti per l’ennesima volta a rifugiarci. La sua non è paura, è tristezza, telefona alla sua bambina al kibbutz Mefalsim, gioca in un rifugio sotto terra. A Sderot a centinaia in un enorme spazio sottorrenaeo, colorati, rumorosi rimbombano piccoli bambini che si arrampicano, si dondolano, commentano: «Non ho paura, ma mia sorella mi tira le spinte nel rifugio di notte»; «Sì lo so chi ci spara, Gaza, ma presto finisce, dice la mamma». Il luogo è colorato, allegro, tragico, gli psicologi curano i bambini che soffrono di disturbi postraumatici, tanti. Sotto terra incontro il sindaco Alon Davidi, tutti gli uffici sono là sotto; è un giovane uomo, usciamo, da una collina a un passo Gaza, si infuria: «Eccone un altro… questa città vuole solo cose buone, i cittadini là invece hanno scelto Hamas, li consideriamo responsabili del nostro e del loro destino». Ad Ashkelon le donne seguitano a partorire nell’ospedale non blindato. I medici restano vicino alle partorienti,la dottoressa Avidan dice che non le passa per la testa di rifugiarsi quando c’è la sirena, è così bello veder nascere un bambino.
Da:IlGiornale
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