Vivi o estremisti ?
Data: 04 febbraio 2013
Autore: Ugo Volli.
Sergio Luzzatto
a destra ‘Un altro ebreo contro il Sionismo’
Dopo oltre un secolo di sionismo e venti dell’esilio seguito all’occupazione romana della Giudea e del Cristianesimo che ne fu una conseguenza indiretta, molti anche fra le persone di origine ebraica non perdonano a Israele di voler essere un popolo insediato in un territorio preciso e non solo una religione. Se gli inglesi amano il loro paese, gli italiani si preoccupano dell’Italia e i francesi amano la Francia, fanno benissimo. Che questa relazione si estenda a chi sta all’estero, tanto da consentire agli emigrati il voto, è naturale e lodevole. Ma se gli ebrei sostengono Israele sono pericolosi estremisti, nazionalisti, fascisti, colonialisti e quant’altro. Si occupassero della loro religione, ma non troppo, perché anche quella è un falso storico, ha rifiutato i progressi di Gesù e di Maometto, meglio perderla che trovarla col suo arido formalismo. Dunque sparissero o si accontentassero di essere inquieti, di fare il “lievito” fra i popoli, salvo pagare anticonformismo e disallineamento con genocidi, espulsioni, o almeno con le salutari purghe di Stalin.
Il libro di Ariel Toaff ( a destra) best seller in tutto il mondo musulmano
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Il SOLE 24 ORE – Sergio Luzzatto : “Estremismo ebraico” (03/02/2013)
per scrivere al Sole 24 Ore: letterealsole@ilsole24ore.com
Domenica scorsa era il Giorno della Memoria. Giorno solennizzato, a Milano, dall’inaugurazione del Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione centrale. Giorno sporcato, a Milano, da improvvide boutades su fascismo e Shoah. L’indomani, in un’intervista al «Corriere della Sera», il presidente della Comunità ebraica milanese ha rinunciato a giudicare se l’autore di quelle battute avesse perso voti, al Binario 21, in vista delle prossime elezioni politiche: «Non lo so. Certo, non li ha conquistati. E avrebbe potuto, perché gli ebrei non cercano mai le posizioni estreme».
Gli ebrei non cercano mai le posizioni estreme? Ecco un’affermazione politicamente curiosa e, in ogni caso, storicamente discutibile. Lasciamo perdere qui l’italico presente: vinciamo la curiosità di sapere come funzioni l’attribuzione a un’intera comunità religiosa di un’unica patente politica, l’estremismo di centro. Concentriamoci sul versante storico della faccenda e chiediamoci se quel “mai” sia vero per il passato, o almeno per il passato prossimo: per gli ebrei d’Europa dall’Ottocento al Novecento.
Può servirci da guida un libro appena uscito in francese, scritto da uno storico italiano troppo bravo per incontrare gloria universitaria in patria: Enzo Traverso, studioso mondialmente affermato della storia degli intellettuali novecenteschi, a lungo professore in Francia e adesso emigrato oltreoceano, alla Cornell University. L’ultimo libro di Traverso suona forte sin dal titolo, La fin de la modernité juive. Suona altrettanto forte nel sottotitolo, Histoire d’un tournant conservateur. E con buona pace del presidente della Comunità ebraica milanese, il libro di Traverso va letto come una dimostrazione del fatto che gli ebrei hanno spesso cercato, dall’Otto al Novecento, proprio le posizioni estreme.
Addirittura si potrebbe riconoscere nel l’estremismo l’ingrediente decisivo della moderna identità ebraica. Non tanto (o non soltanto) in un estremismo politico, quanto piuttosto in un estremismo culturale. Nella vocazione degli ebrei moderni al l’affermazione intellettuale della dissonanza, della differenza, della dissidenza. Per circa un secolo – grosso modo dal 1850 al 1950 – la cultura ebraica ha rappresentato in Europa il principale focolaio di quello che Traverso definisce, riassumendo e semplificando, il «pensiero critico». Ma dopo il 1950, «la modernità ebraica ha esaurito la sua traiettoria». Peggio, si è trasformata nel suo contrario. Gli estremisti della critica sono divenuti estremisti del dogma. Da sovversivi dell’intelligenza europea, gli ebrei si sono trasformati in guardiani del l’ortodossia occidentalista.
Il connubio tra ebraismo e modernità si era inaugurato, a dire il vero, ben prima del 1850. Già nel Seicento, i discendenti dei marrani provenienti dalla penisola iberica avevano incarnato (per esempio nella Amsterdam di Spinoza) una prima realizzazione della figura cosmopolitica dell'”ebreo non ebreo”. Erano seguite, dal Sette all’Ottocento, le diverse tappe della cosiddetta emancipazione. Nell’Europa centro-occidentale, una millenaria discriminazione degli ebrei aveva lasciato il passo a una loro piena integrazione giuridica, economica, sociale, politica. E il prezzo dell’eguaglianza era consistito nel l’affrancamento (se così si può dire) degli ebrei dall’ebraismo: nel trionfo dell’ebreo laico, quel l'”ebreo senza Dio” in cui volentieri si riconosceva Sigmund Freud.
Tuttavia, la fine della marginalizzazione degli ebrei non aveva significato la fine della loro diversità. Perché – nota acutamente Traverso – «né l’esperienza storica né la struttura diasporica degli ebrei corrispondevano al lessico della modernità politica, dominato dalla triade Stato, nazione, sovranità». La modernità ebraica era fatta di tutt’altro: di «testualità, urbanità, mobilità, extraterritorialità». Particolarmente negli imperi multietnici dell’Europa centrale e orientale, dall’Austria felix alla Russia dei pogrom, la modernità ebraica era costruita sulle opportunità del multilinguismo, se non sulle necessità dell’esilio. Nell’età dei nazionalismi, gli ebrei vivevano i confini nazionali non come barriere da erigere, ma come ponti da superare.
Minoritaria, all’epoca, la scelta del sionismo: cioè di una via ebraica al nazionalismo. Maggioritaria – dalla Germania di Radek alla Russia di Trockij, attraverso la Polonia del Bund – la scelta del socialismo: cioè di una via politica al cosmopolitismo. Scelta che l’ebrea polacca Rosa Luxemburg avrebbe trovato parole poetiche per spiegare, dal fondo di una cella prussiana, due anni prima di morire ammazzata. Davanti ai dolori del mondo, confidava a un’amica nel 1917, non restava più nel suo cuore nessun «angolino speciale» per i dolori degli ebrei: «nel vasto mondo, mi sento a casa mia ovunque vi siano delle nuvole, degli uccelli, e delle lacrime». Non per caso l’identificazione del l’ebreo con il cosmopolita rappresentava un cavallo di battaglia dell’antisemitismo colto come del l’antisemitismo volgare.
Tra gli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, un’indefinibile miscela di Mitteleuropa e di Yiddishkeit produsse, da Berlino a Parigi attraverso Praga e Vienna, un’esplosione di creatività che Traverso ha buon gioco nel paragonare a quelle della Grecia classica o dell’Italia rinascimentale. Kafka, Musil, Proust nella letteratura, Chagall nella pittura, Luxemburg e Trockij nella teoria politica, Simmel, Mannheim, Durkheim, Mauss nella sociologia, Einstein nella fisica, Schönberg nella musica, Warburg, Kracauer, Benjamin nelle arti, Adorno, Horkheimer, Arendt nelle scienze sociali, Jakobson e Lévi-Strauss nella linguistica e nell’antropologia… Liberati dai ghetti, entro un paio di generazioni gli ebrei moderni – gli ebrei senza patria e senza Dio – fertilizzarono ogni campo della cultura europea.
La fine della modernità ebraica coincise con un doppio evento: da un lato, con il trauma immane della Shoah; dall’altro lato, con l’epocale nascita di Israele. Mentre i salvati della Soluzione finale abbandonavano progressivamente l’Europa (dieci milioni gli ebrei intorno al 1930, due milioni intorno al 1990), l’Europa stessa si organizzava, seppure lentamente, per sublimare la spinosa “questione ebraica” in un pensoso “luogo di memoria”. Quanto a Israele, si fondava come Stato etnico e confessionale proprio mentre la vecchia Europa cercava di risorgere dalle proprie ceneri come Europa unita, in una prospettiva laica di superamento dello Stato-nazione.
La “svolta conservatrice” della cultura ebraica nel mondo ha parecchio a che fare con la storia dello Stato di Israele, e in particolare con le vicende mediorientali successive alla guerra dei Sei Giorni del 1967. Da Henry Kissinger a Leo Strauss, da Saul Bellow a Elie Wiesel, è la storia di una progressiva riconciliazione fra le passioni identitarie degli ebrei diasporici e le ragioni politiche delle destre occidentali. Ed è la storia di uno sfruttamento sempre più smaccato delle sacche di giudeofobia che continuano a esistere – purtroppo – nelle società occidentali. Pro domo di Israele, si finge di credere che Mahmoud Ahmadinejad sia un erede diretto di Adolf Hitler. Pro domo delle classi privilegiate nostrane, si finge di credere che i fondamentalisti islamici delle banlieues siano i nipotini delle SS di Himmler. E si alimentano luoghi comuni islamofobi elevando l’immigrato musulmano a spauracchio del nostro tempo.
Il cuore di Enzo Traverso batte per una cultura ebraica diversa, ormai morta e sepolta. Rimpiange l’estremismo culturale dei dissidenti, l’anticonformismo politico degli apolidi, l’eresia laica degli ebrei non ebrei. «Il pensiero critico resta una tradizione ebraica, ma ha cessato di essere uno dei “privilegi negativi” che, secondo Max Weber, qualificavano la condizione degli ebrei. Si fatica a immaginare Kafka che riceve un premio letterario, Benjamin che diventa membro del Collège de France o del Max Planck Institut, Trockij che si candida alle elezioni».
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