*moked/מוקד*

I cittadini israeliani si recheranno alle urne il 22 gennaio 2013.
Il numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione ha dedicato all’appuntamento elettorale una serie di articoli. Pubblichiamo di seguito l’intervento del demografo e punto di riferimento della comunità degli Italkim Sergio Della Pergola.

In vetta all’ordine del giorno della campagna elettorale in Israele verso il rinnovo della Knesset il 22 gennaio sventolano la sicurezza nazionale e la politica estera. Questa scelta non è casuale – per lo meno per il governo uscente. La ragione vera dell’anticipo delle elezioni, previste in origine nel novembre 2013, è stata l’impossibilità di approvare il bilancio dello Stato a causa delle esigenze esose e antitetiche dei sette partiti che fino a poche settimane fa formavano una coalizione governativa che sembrava incrollabile. Ma il partito di maggioranza relativa, il Likud con i suoi 27 seggi, deteneva meno della metà della maggioranza parlamentare (teoricamente 31 su 61, su 120 seggi in totale) ed era quindi inevitabilmente esposto ai piccoli o grandi ricatti dei suoi partner. La scelta lungimirante di Benyamin Netanyahu di formare una lista unificata con Avigdor Liberman, il leader di Israel Beiténu e suo maggior concorrente per l’egemonia della destra nazionale israeliana (le cui dimissioni vogliono consentire una rapida e indolore conclusione della vicenda giudiziaria in cui è coinvolto da un decennio), puntava appunto a creare un blocco parlamentare di 42 deputati ampiamente egemone nella Knesset uscente, e fiducioso di governare in quella entrante. Per ottenere questo era necessario individuare il terreno giusto su cui sfidare gli avversari. Andare alle elezioni sull’impossilità di approvare il bilancio, con i drastici tagli necessari, sarebbe stato ammettere un clamoroso insuccesso. Molto più attraente, per Bibi e i suoi compagni di viaggio, puntare sul richiamo alla memoria, all’identità, alla difesa del paese di fronte ai rischi esistenziali – peraltro reali – emergenti dal torrido ambiente medio-orientale in mezzo a cui Israele vive. Il mondo arabo oggi, è vero, è distratto da una gigantesca guerra civile (definita da alcuni osservatori, non si sa se più illusi o mal informati, “primavera araba”), ma è pur sempre in grado di causare gravi danni alla sicurezza e alla sovranità israeliana. Lo si è visto nella recente operazione Colonna di fumo (definita Colonna di difesa a uso esportazione stampa estera) contro il regime di Hamas a Gaza. A dire il vero, con Colonna di fumo si replicava puntualmente quello che era già avvenuto con l’operazione Piombo fuso alla fine del 2008 sotto il governo di centro-centrosinistra di Ehud Olmert, pure alla vigilia di nuove elezioni. Allora avevamo previsto che, in caso di vittoria schiacciante di Israele sui movimenti terroristici, il governo uscente avrebbe attratto nuovi consensi e avrebbe fatto bene alle urne ma in caso di vittoria stentata o pareggio, avrebbe perso molti punti. Cosa poi puntualmente verificatasi, a vantaggio di Bibi ma specialmente di Liberman e del suo Israel Beitenu. Anche questa volta, per giudicare la vittoria militare di Israele sul campo bastava percorrere le strade di Gaza, o scrutare nei cieli la performance dell’antimissile Cupola di ferro. Ma il bilancio finale di fronte a Hamas restava tuttavia, a detta di molti, una specie di pareggio che poteva danneggiare la maggioranza governativa. Ci pensava però subito dopo Abu Mazen, sostenuto all’Onu da 138 paesi (fra cui l’Italia) consapevoli o meno della vera natura e conseguenza di quel voto, a stimolare nuovamente il senso di solidarietà nazionale degli israeliani. Meglio dunque per Bibi cercar di mantenere l’attenzione del pubblico fissa sulla grande politica anziché sul fatto che Israele, oltre al dovere di difendersi, è anche un paese. Un paese in cui i servizi sanitari, il sistema educativo, i trasporti devono funzionare, in cui il livello dei redditi e dei prezzi dev’essere tale da permettere un onesto tenore di vita nell’alloggio, nei generi alimentari, nel risparmio, nelle pensioni e nell’equità sociale. Riguardo alla grande politica, era ed è automatico per Bibi arruolare una coalizione composta dalla destra nazionale liberale-nazionale (Likud-Beitenu), dal partito nazionale religioso (ora Habayt Hayehudi) e dalla destra ultra-nazionalista dai toni sopra le righe (Hayhud Haleumi, ora fusosi con il precedente). Semplificando molto il discorso, tutti questi partiti insieme – che qui chiameremo con terminologia americana “i repubblicani” – sono oggi al governo, assieme ai haredim (Yahadut Hatorah e Shas). Secondo gli ultimi sondaggi pre-elettorali aggiornati alla metà di dicembre, Bibi era proiettato a ricreare agevolmente la sua attuale maggioranza – salvo poi pensare al bilancio. Di fronte a tutto questo, le forze politiche di centrosinistra (laburisti- Avodah e Meretz) e del centro (quella terza forza che periodicamente e sotto nomi diversi sorge e scompare in Israele) avrebbero dovuto spostare il discorso pre-elettorale sui temi delle necessità urgenti dell’economia e della società civile. Ma, invece di coalizzarsi in una concreta proposta alternativa di governo, hanno preferito inscenare uno spettacolo sconcertante di lotta fratricida, dominata da divisioni, egoismo, fughe e dispetti reciproci dei personaggi chiave. Dal clamoroso crollo di Kadima, da maggiore partito nazionale (28 seggi nel 2009) fino all’orlo della soglia di ammissione in parlamento (2 seggi), sorgevano degli spezzoni di partito con Yesh Atid (C’è futuro) di Yair Lapid e Hatenuah (Il movimento) di Tzipi Livni. I Laburisti-Avodah con Shely Yachimovich davano qualche segno di ripresa dal lungo tracollo storico che li aveva portati da 44 seggi nel 1992 con Ytzhak Rabin a 13 nel 2009 con Ehud Barak (mentre il più radicale Meretz passava da 12 a 3). Ma secondo gli ultimi sondaggi la somma dei partiti del centrosinistra e del centro (che, sempre semplificando, chiameremo all’americana i “democratici”) non guadagnava nulla, anzi perdeva qualche cosa. Lo scoglio cruciale non era la piattaforma programmatica, facilmente intercambiabile fra i partiti della medesima area politica, bensì, tristemente, la non rinuncia ad essere il capolista. Anche il computo dei tre partiti arabi (Hadash, comunista; Raam- Taal, islamico; e Balad, ultra-propalestinese e anti-israeliano) non sarebbe stato sufficiente a formare un ipotetico blocco maggioritario di ostruzione nei confronti della coalizione egemone. Se poniamo le previsioni per il voto del 22 gennaio in prospettiva storica (vedi grafico, con tutti i risultati dal 1992 e le previsioni per il 2013 fra virgolette), riducendo l’infinita spezzettatura dei partiti alle quattro maggiori aree politiche, emerge a grandi linee una sorprendente stabilità del sistema e un quasi pareggio fra le due ideologie principali, già visibile del resto negli anni ‘80. Ma appare anche chiaramente la meccanica dell’alternanza al potere fra la coalizione “democratica”, guidata dall’Avodah, e la “repubblicana”, guidata dal Likud. Lo scambio al vertice è avvenuto quasi ad ogni tornata elettorale – ma non è previsto questa volta. È anche importante notare che se negli ultimi vent’anni il Likud ha mantenuto la sua costante egemonia all’interno dei “repubblicani”, fra i “democratici” è avvenuta un’epocale sostituzione delle forze di centro nei confronti di quelle di centrosinistra come forza trainante. Le altre due componenti politiche principali, i haredim e gli arabi, sono anch’esse in complesso stabili ma entrambe storicamente in lenta progressione demografica. Per loro può risultare decisiva la percentuale di astensioni il giorno del voto. Il 22 gennaio si prospetta dunque vittorioso per Bibi, ma in politica come in politica.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
Pagine Ebraiche, gennaio 2013

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.