Se veramente è il Super-io che nell’umorismo parla in tono così amabilmente consolatorio all’Io intimidito, ciò ci ammonisce che sulla natura del Super-io abbiamo ancora moltissime cose da imparare. (S. Freud)
Nell’umorismo ebraico la tensione fra i due registri, quello dell’accusa antisemita e dell’autodifesa ebraica, è massima, al punto che basta poco per snaturare il significato. La delicata costruzione del motto richiede che siano presenti tutti gli elementi per cui è stato ideato per dispiegare pienamente il suo senso. Ha bisogno innanzitutto del suo pubblico che a sua volta deve sapere che a raccontare sia “qualcuno di noi”, che il contesto sia, per così dire, heimlich. Altrimenti la storiella, soprattutto se appartenente alle più feroci, rischia di essere stravolta nel suo significato. Nel discorso antisemita l’ebreo è nella situazione descritta da Kafka nel Processo. Qualunque cosa egli dica e faccia in propria difesa, gli si ritorce contro. La sua è una colpa che trascende le responsabilità per la sua condotta individuale. Egli è già colpevole in partenza, e la colpa si aggrava per il fatto di difendersi.
È una logica senza scampo per chi la subisce, un ricatto permanente, per certi aspetti ancora operante. Il witz è la risposta creativa a questa situazione, la difesa di chi con una memoria animale sa già in partenza che a nulla servirebbe controbattere “No! Non è vero. Ciò che tu dici è falso”, e percepisce anche che affrontare l’antisemita sul suo stesso terreno è già un’ammissione di colpa, che mette a dura prova l’integrità morale e psichica della vittima. È perciò che il witz non censura il discorso antisemita e gli dà, apparentemente, uguale dignità di cittadinanza.
Poiché non può sfuggire all’accusa, l’ebreo la fa propria, trasferendola su un terzo registro che la libera appunto dal circolo infernale delle accuse e delle controaccuse.
L’effetto è catartico e l’ebreo può, alla fine, ridere delle sue angosce e delle paure. Gli aspetti della vita ebraica sono sì criticati, ma la loro messa in discussione determina nel contempo un inaspettato capovolgimento di valori, che fa scaturire significati nuovi e di segno opposto. Alla fine è l’accusatore che ha qualcosa da apprendere. Le tensioni della vita ebraica sono artificialmente riprodotte e drammatizzate con lo scopo di liberare chi ne è oggetto dal fardello che impongono.
L’apparizione dell’altro, con le sue accuse, all’interno del discorso ebraico, diviene nelle battute più riuscite uno strumento potente di autocomprensione individuale e collettiva, una via alla simbolizzazione e alla conoscenza.
Il successo dei film di Woody Allen è un esempio concreto di come l’esperienza ebraica abbia assunto per larghi strati della cultura contemporanea una valenza paradigmatica, un significato di valore più ampio e universale. La condizione ebraica ha assunto un valore paradigmatico, la figura dell’ebraismo è diventata una figura dell’etica.
Un nuovo motto, scrive Freud “è quasi un avvenimento di interesse generale e passa da una bocca all’altra come la notizia della più recente vittoria”.
Il riso per il motto rimanda alla nascita imprevedibile di Isacco, che significa appunto risata, da Sara sterile. Poiché Sara ha riso (zahaqà) ascoltando la voce dell’angelo, il figlio si chiamò Isacco. E c’è da chiedersi se il nome di Isacco non contenesse in sè l’esperienza traumatica dell’Akedah, il legamento a cui verrà sottoposto in seguito al comdandamento di sacrificarlo al Signore.
Nel racconto biblico Il Signore interviene quando Abramo sta per sacrificare il figlio della promessa, il frutto del suo amore più grande, la persona che gli era più cara.
Il monoteismo nasce con l’abolizione dei sacrifici umani e Isacco che l’ha scampata porta nel nome l’esperienza del riso, che è appunto sospensione del giudizio di morte. Il Talmud racconta che tra le dieci cose create che esistevano nella mente divina prima della creazione ci fosse l’animale sostitutivo che avrebbe preso il posto di Isacco.
Nella mente esiste una possibilità di sostituire la logica del processo primario con quello terziario, la sterilità con la fecondità, l’invidia con la creatività. Il motto non ama la coazione a ripetere. Al vittimismo e all’odio contrappone una logica terza, che oltrepassa il registro dell’accusa e delle controaccuse.
L’ausilio che pone in atto implica un dispendio culturale, che trova la sua validità nella capacità di evocare in modo creativo e innovativo regolarità naturali. Per parafrasare ancora il testo biblico: “Ve nattatì lecha et hamauet ve et hachaim, ubachartà bachaim”. “Ed Io ho posto dinanzi a te la morte e la vita, ma tu sceglierai la vita”. In tal senso la psicoanalisi è una storia ebraica e Freud l’autore del motto di spirito più riuscito.

Da: moked/מוקד

 

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