Potrebbe andar peggio (sull’umorismo ebraico)
di Laura Salmon, Università di Genova
Ridete fino alle lacrime (per ottimisti e pessimisti)
Stanisław Jerzy Lec
Parlare di “umorismo ebraico” pone alcune questioni. Per prima cosa dobbiamo chiederci cosa si intenda per “umorismo” e, in secondo luogo, se esista un umorismo che sia solo ebraico, che non esista nelle culture “altre”. Chiediamoci: per “umorismo” intendiamo le barzellette? Esiste un tipo di derisione che funziona in modo diverso dalle barzellette? E dove sta la specificità ebraica?
Partiamo da queste domande intrinsecamente legate tra loro. Se per “umorismo ebraico” si intendessero le barzellette, allora si potrebbe dire senz’altro che gli ebrei raccontano tante barzellette con protagonisti ebrei e scenari ebraici, ma in modo analogo a tutte le altre culture. In questo caso, l’umorismo ebraico non avrebbe nulla di ebraico, tranne il fatto di parlare di ebrei. Si potrebbe dire in tal senso che tutti deridono sempre nello stesso modo, ma gli ebrei lo fanno più spesso e che deridono soprattutto se stessi.
Le barzellette ebraiche, in realtà, si distinguono per quantità e frequenza d’uso, ma funzionano esattamente come quelle inglesi, russe o genovesi, cioè fanno ridere allo stesso modo. Una barzelletta sull’ebreo tirchio, mutatis mutandis, funziona perfettamente col genovese tirchio o col portoghese, così come la barzelletta su Mussolini funziona sostituendolo con Stalin o Berlusconi, laddove l’oggetto di derisione sia il medesimo difetto (ad esempio, l’arroganza, la prepotenza, l’ignoranza ecc.). Ebraica o non ebraica, la barzelletta aggredisce un difetto umano che può stare in un àmbito o in un altro. Pertanto ci sono barzellette esportate dal campo politico in quello professionale, da quello professionale in quello etnico: la stupidità, come noto, può essere derisa attaccando un popolo (belgi, estoni, polacchi ecc.) o una categoria (i “nostri” carabinieri).
Spiegare in modo scientifico come funziona una barzelletta non è affatto semplice, ma lo ha fatto Victor Raskin, massimo esperto mondiale degli Humor Studies (campo di ricerca interdisciplinare che annovera informatici, matematici, filosofi, linguisti, letterati, psicologi, neurofisiologi, ingegneri, ecc.). La barzelletta “classica”, spiega Raskin, è costruita secondo uno schema fisso, prevedibile e formalizzabile. Il procedimento non è qui riassumibile, ma si può almeno dire che la barzelletta contiene due “strati” che si sovrappongono creando un equivoco logico e/o verbale: se la barzelletta è “buona”, ciò implica che la battuta finale scopra l’equivoco in modo immediato e, quindi,sorprenda, disattendendo le aspettative dell’ascoltatore senza dargli il tempo di intuire l’esito. Infatti, se si anticipa il finale di una barzelletta, la si rovina: non si ride più perché non c’è sorpresa. Il riso scaturisce proprio dalla sorpresa, non da un mutamente mentale di chi ascolta. La barzelletta non sorprende per quello che dice, ma per come lo dice. Perciò non ridiamo più di una barzelletta di cui conosciamo il finale. Per ridere di nuovo di una vecchia barzelletta, dobbiamo aver dimenticato come “finisce”.
Nelle barzellette o storielle ebraiche (come in quelle delle altre culture nazionali), in poche parole, non c’è nulla di ebraico se non a livello tematico (esistono barzellette parallele dove al posto della “yiddishe mame” si mette la “mamma italiana”). Quindi, anche se si parla di rabbini e sinagoghe, di circoncisioni e di shtetl, quello che viene deriso sono furbizie, contraddizioni, gestualità ecc. cioè i difetti tipici della stereotipia ebraica, peraltro diffusi anche in altre culture.
La derisione dei difetti umani è connaturata alla nostra specie, cioè alla struttura cognitiva e comportamentale dell’homo sapiens-sapiens (che, quindi, è anche un homo ridens-ridens). La barzelletta usa quegli stereotipi mentali “binari” (manichei o dualistici) che hanno aiutato l’essere umano nella sua lunga evoluzione a prendere decisioni veloci in situazioni difficili (come quelle della savana): è una struttura di giudizio che divide le cose sommariamente (in modo semplificato e rapido) in buone/cattive, giuste/sbagliate, bianche/nere, ecc.. Questa struttura consente di dividere in modo binario le qualità (generosità/tirchieria; stupidità/furbizia, ecc.), le categorie comportamentali (fedeltà/tradimento, eroismo/inerzia ecc.), i ruoli gerarchici (maresciallo/appuntato, Pierino/maestra ecc.), i ruoli religiosi (prete/rabbino ecc.), le categorie etniche associate a stereotipi (“un tedesco, un americano e un italiano si incontrano…”).
Anche gli ebrei apparentemente deridono se stessi, ma in realtà si pongono in un ruolo che, a qualche titolo, è positivo: per lo più “si lodano fingendo di imbrodarsi”. In questo non c’è nulla di specificamente ebraico, poiché gli italiani fanno lo stesso: nelle barzellette in cui gli italiani sono “pasticcioni”, risultano però, alla fine, più furbi degli altri.
In breve, le barzellette consolano, mostrando A) in buona luce quelli che sarebbero i propri difetti; B) in cattiva luce i difetti degli altri. In sostanza, rispondono al bisogno umano di trovare una categoria di persone o un difetto che possa essere considerato risibile quando è altrui. Ironia, parodia, satira e barzelletta funzionano allo stesso modo: consolano colpendo un bersaglio “nemico”.
Questo tipo di derisione “giudicante” ha quindi una doppia funzione: permette di aggredire con sostanziale impunità e senza spargere sangue, e consola, in quanto permette di sentirsi superiore a qualcuno, attenuando frustrazione, emarginazione, senso di inferiorità.
Certamente gli ebrei hanno dovuto patire più di altri popoli frustrazione ed emarginazione, e certamente sono abilissimi nei prodotti delle arti verbali (ben trasportabili, a differenza di palazzi e monumenti, in condizioni di nomadismo). Gli ebrei sono certamente il popolo del Verbo e quindi sanno usare la parola per difendersi e consolarsi, per protestare contro i soprusi altrui. Lo fanno spesso e più dei popoli stanziali e potenti (meno frustrati). Tuttavia, questo modo verticale di deridere · dall’alto in basso · non distingue gli ebrei in quanto tali e non costituisce la loro peculiarità espressiva.
Quello che li distingue, infatti, è un’altra modalità di derisione che è ben più sofisticata e rara, e che funziona in modo opposto alla derisione verticale. Questa modalità corrisponde a ciò che Luigi Pirandello chiama “umorismo” e oppone alla comicità e all’ironia. L’“umorismo” · a differenza di satira, parodia e barzellette · è una derisioneorizzontale, dove ciò che è deriso è il giudizio stesso, cioè la propensione umana a dividere le cose in giuste/sbagliate, in buone/cattive. L’umorismo, dice Pirandello, non è un genere, ma un atteggiamento, un modo di essere, di sentire, di guardare alle cose. È, per l’appunto, lo dice la parola, un umore che impedisce di avere categorie rigide, di giudicare. Anche in questo caso, gli ebrei non sono i soli “umoristi”, ma sono coloro che – per motivi storici e culturali – hanno trovato il doloroso humus ideale per addestrarsi alla sospensione del giudizio, su cui si fonda l’atto umoristico.
L’umorismo è, dice Pirandello, il “sentimento del contrario”, che non è affatto “spirito di contraddizione”, bensì capacità di ribaltare ogni cosa nel suo opposto: di vedere il bello nella bruttezza, l’avarizia nella generosità, l’arroganza nell’umiltà, il goy che è nell’ebreo, l’ebreo che è nel goy. Di vedere il divertente nelle proprie lacrime, cioè di spostare il proprio giudizio (divertens vuol dire in realtà “spostato”). L’umorista non ride del carabiniere, ma vede il carabiniere che ha in sé. Non deride il tradimento, perché si sente tradito e traditore; non deride il falso, perché · a furia di riflettere sulla verità · non sa più dove sia. L’umorista non ride contro qualcuno, ma ride conqualcuno o qualcosa della triste condizione umana.
L’umorista, a differenza del comico, resta dentro il paradosso e, coraggiosamente, sopporta di non poterlo risolvere. Deride, per l’appunto, le certezze manichee dell’essere umano, deride le categorizzazioni, il narcisismo del complesso di superiorità, ma anche quello del complesso di inferiorità. In breve, deride la derisione, deride ilgiudizio.
L’umorismo è per definizione diasporico, barcollante, e quindi, pur non essendo esclusivamente ebraico, è generato da situazioni di sospensione, malinconia, incertezza che sono tipicamente diasporiche. In tal senso, nessun gruppo culturale ha maturato un addestramento alla paradossalità, alla sospensione, più sofisticato e prolungato di quello della diaspora ebraica. A furia di essere sospeso in uno spazio-tempo non suo, l’ebreo · costretto a far sua una terra e una lingua altrui · si barcamena umilmente all’interno di un paradossale relativismo assoluto che esclude l’asservimento della ragione al dogma.
Il relativismo, infatti, è tipico di chi non ha più dogmi; di chi si affida non a una Verità indiscussa, ma al processo di ricerca della verità, di una verità potenziale e sfuggente, che va cercata più che trovata; di chi non ha un Testo con l’imprimatur di una Chiesa, ma cerca variabili nascoste persino nelle parole di Dio; di chi ha un Dio che offre agli umani più domande che risposte. Per questo gli ebrei dello shtetl hanno maturato un approccio umoristico, paradossale, perché sono il popolo della domanda e si trovano male in un mondo di risposte. Questi ebrei non raccontano barzellette, ma con i loro aforismi · come i monaci Zen · trasformano in riso l’assurdo che li circonda.
L’ebreo umorista non ha Verità, né Anti-verità; come dice Sergej Dovlatov, sa bene che ci sono casi “in cui hanno ragione anche quelli che hanno torto”. Umorista è lo zaddik che dà ragione a tutti i contendenti e che sa dire Dio che ha sbagliato; è il Benja Krik di Babel’ che dice:
Non è stato forse un errore da parte di Dio collocare gli ebrei in Russia perché patissero come all’inferno? E che male c’era a farli vivere in Svizzera, con laghi di gran classe, aria di montagna e tutti quei francesi? Chiunque può sbagliare, anche Dio.
Se la comicità suscita il riso, l’umorismo suscita il riso tra le lacrime. Come spiega la nonna di Amos Oz in Una storia di amore e di tenebra: quando non ci sono più lacrime, non resta che ridere. L’umorista ride della propria malinconia e persino della propria disperazione.
Questo umorismo, così diverso dalla comicità, è una forma di derisione condivisa, empatica, orizzontale, che è tipicamente diasporica, e quindi ebraica. Se la barzelletta col suo punch-line (il “pugno” finale) colpisce il più debole, il malinconico paradosso umoristico “dà una mano” a chiunque a vedere la forza della debolezza e la debolezza della forza.
La comincità è conservativa, reazionaria in quanto conferma i pregiudizi, gli stereotipi che governano qualsiasi mente umana. L’umorismo, al contrario, destabilizza gli stereotipi e addestra alla ribellione mentale, a non lasciarsi schiacciare dal “senso comune”. L’umorismo è ben più complesso della comicità: non inverte le cose in modo semplice come l’ironia o il carnevale (in cui un giullare va al posto del re o viceversa). Disinnescando la stereotipia, l’umorismo offre la faticosa e straordinaria libertà di vedere che l’unica certezza umana è il dubbio, che la sola scoperta umana è un nuovo punto di partenza, che la vera grandezza del Messia è la sua capacità di farsi aspettare.
Sarà anche faticoso, ma chiunque può imparare a sorridere della propria disperazione, a non confondere la speranza con l’illusione, a sentire la forza inesauribile dell’umiltà.
Esempi del paradossale umorismo ebraico? Il film Ogni cosa è illuminata (dall’omonimo libro di Jonathan Safran Foer), la prosa di Isaak Babel’, Romain Gary, Bashevis Singer, gli aforismi di Stanisław Jerzy Lec. E l’impagabile Dovlatov.
E, volendo, una storiella…
Un ebreo incontra per strada un suo vecchio amico. “Shalom”, gli dice, “Come ti va?”
“Beh, che dire? Potrebbe andar peggio. C’è stato un incendio e casa mia con tutto quel che c’era dentro è finita in cenere”
“Oy vey! Ma è terribile!”
“No, non è così terribile. Vedi, ero assicurato e con quel che mi paga l’assicurazione ci guadagno pure.”
“Beh, allora è fantastico!
“Beh no, non è così fantastico. Ricordi mia moglie? Beh, è morta nell’incendio.”
“Oh no! Ma è terribile!”
“Non è così terribile. Da allora, vedi, mi sono rispostato e la mia nuova moglie è più bella e più gentile della prima.”
“Ma bene, allora, congratulazioni, è meraviglioso!”
“Eh no, non è così meraviglioso. Vedi il mio vicino di casa è giovane e bello e ho notato che mia moglie va spesso a trovarlo e quando una bella ragazza passa il tempo assieme a un bel giovane, immagino che non studiano la Torah!”
“Oy, ma è terribile!”
“No, non è tanto terribile. Perché, vedi, anche il mio vicino ha una bella moglie e quando mia moglie va da lui, sua moglie viene da me.”
“Oh, in questo caso, è fantastico!”
“Ma no, come ti dicevo, non è fantastico, non è terribile. Semplicemente potrebbe andar peggio.” (Harvey Mindess 1972)
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