Miti e realtà post-‘67.
(Da: Jerusalem Post, 5.6.12, israele.net 08-06-2012)
Nelle immagini a sinistra: 1) Maggio 1948: ebrei di Gerusalemme vecchia costretti ad abbandonare le proprie case occupate dalla Giordania. 2) Maggio 1967: una vignetta della propaganda araba alla vigilia della guerra dei sei giorni: i cannoni di Sudan, Algeria, RAU (Egitto), Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Siria e Libano buttano a mare l’ebreo Israele (da: Al Jarida, Beirut)
Di Gerald M. Steinberg
La guerra dei sei giorni del 1967 fu la conseguenza del rinnovato tentativo da parte araba di “cancellare Israele dalla carta geografica”: di fatto una ripresa della guerra del 1948 che era finita con un cessate il fuoco temporaneo senza che vi fosse fra i capi arabi alcun interesse ad arrivare ad accordi di pace a lungo termine con Israele (furono proprio gli stati arabi a insistere perché negli armistizi del ’49 fosse scritto a chiare lettere che quelle linee erano provvisorie, giacché per loro era provvisorio lo stesso stato d’Israele). Questa è la ragione per cui non è mai esistito alcun “confine pre-’67” fra Israele e la regione a ovest del fiume Giordano (Cisgiordania): l’esistenza di quel confine non è che uno dei tanti miti che distorcono la percezione del conflitto a livello internazionale. Un altro mito è la convinzione che in quella guerra Israele abbia occupato “i territori palestinesi di Gerusalemme est e Cisgiordania”. In realtà, quei territori non erano affatto in mani palestinesi: erano stati occupati dalla Giordania con la guerra del 1948, e da quei territori Israele era stato ripetutamente attaccato. Durante il periodo 1948-‘67 la parte di Gerusalemme storicamente e religiosamente ebraica era stata sistematicamente preclusa all’accesso di israeliani ed ebrei, e gravemente profanata e vandalizzata. Tutti gli ebrei che vi vivevano vennero cacciati a ovest. Nel 1967, la plurisecolare presenza ebraica nella Gerusalemme Vecchia venne semplicemente ripristinata, dopo un intervallo di diciannove anni. E mentre il governo israeliano proponeva subito di negoziare la restituzione di territori in cambio della pace tanto attesa, la Lega Araba riunita a Khartoum (Sudan) chiudeva la porta in faccia a qualsiasi negoziato o accordo di pace, per sempre. Questa fu l’origine, non pianificata ed estemporanea, degli insediamenti, costruiti con le fondamenta ben piantate nel rifiuto arabo. Ma questo accadeva allora. Oggi, a quarantacinque anni di distanza, i miti si sono saldamente radicati nelle accademie in giro per il mondo (luoghi che solitamente non brillano per un’approfondita conoscenza del Medio Oriente) nonché fra i giornalisti stranieri, i diplomatici, i politici e persino fra molti israeliani. Nonostante gli accordi di Oslo (1993) che crearono (per la prima volta nella storia) un’Autorità Palestinese semiautonoma con un governo semi-sovrano, la popolazione di circa un milione e mezzo di persone che vive in Cisgiordania (il nome esatto è sempre stato Giudea e Samaria dai tempi della Bibbia fino a quelli del Mandato Britannico) viene comunque genericamente considerata “sotto occupazione israeliana”, come una sorta di moderna forma di colonialismo. In un certo senso, la guerra del 1967 e la situazione di stallo che ne è seguita è diventata una trappola per Israele, cosa che i palestinesi e in generale i nemici di Israele hanno capito già da tempo. Al di là della ipocrita appropriazione del termine “apartheid” e delle campagne per il boicottaggio e le sanzioni, l’occupazione e lo status indefinito di quei territori comportano un grave prezzo per le limitate risorse israeliane. Oltre alla necessità di difendersi dal terrorismo stragista, dal lancio di missili e dagli attentati per le strade, si è creato in quei territori un preoccupante livello di illegalità e di anarchia in una frazione minoritaria degli ebrei che vi hanno creato degli avamposti. Nel 1977 l’allora primo ministro israeliano Menachem Begin, un convinto democratico che era anche fermo sostenitore del diritto degli ebrei di vivere in qualunque parte della loro patria storica, respinse gli appelli di chi premeva per l’annessione dei territori. Aveva capito che Israele non poteva incorporare quei territori senza garantire alla popolazione araba pieni diritti democratici (come quelli degli arabi cittadini d’Israele), il che però avrebbe messo a repentaglio la struttura culturale, politica e sociale ebraica del paese. Questo basilare dato di fatto non è cambiato. Da allora, gli sforzi di Israele per districarsi da questa trappola sono tutti falliti. Il piano di Begin per l’autonomia “degli abitanti arabi in Terra d’Israele” – sviluppato nel contesto dei negoziati di pace con l’Egitto (1978-79) – che doveva servire a contrastare le pressioni del presidente Usa Jimmy Carter per la creazione di una sovranità statale palestinese guidata da Yasser Arafat e dall’Olp, non approdò da nessuna parte. Più tardi, l’apparenza di pace presentata nel processo di Oslo sfociò nel terrorismo stragista, ed anche il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza, con lo sgombero non solo dei civili ma anche di tutti i militari israeliani (2005), non è certo finito bene. Ogni insuccesso non ha fatto che aumentare il grado in cui il quadro, accidentalmente creato dalla guerra del 1967, veniva determinato da mattoni e cemento. Nel 2003 l’intesa Sharon-Bush avrebbe potuto produrre un cambiamento sostanziale, con il riconoscimento da parte americana della possibilità di preservare i blocchi di insediamenti – noti in Israele come quelli “del consenso” e che sorgono perlopiù nei pressi della ex “linea verde” armistiziale del 1948-’67 – in cambio di cessioni territoriali da parte di Israele in altre aree. Poi però l’amministrazione Obama ha ritirato l’assenso Usa allo scambio, commettendo quello che si è rivelato un colossale errore. Il risultato è che lo status quo post-’67 perdura, senza un esame consapevole e ben ponderato dei costi e benefici per Israele di un’occupazione permanete, in assenza di confini definiti e di un accettabile sistema di leggi e diritti. Nel frattempo, le frange ideologiche di destra e di sinistra hanno imposto le loro mitologie. Tra queste, il mito che sia possibile un “trasferimento” volontario o forzato di milioni di palestinesi e, all’estremità opposta dello spettro politico, il mito naif di una pace che scaturirebbe “istantanea” (pace adesso) col semplice ritorno alle linee pre-’67 senza alcuna garanzia per impedire futuri attacchi di missili e del terrorismo stragista. Quarantacinque anni dopo la guerra del 1967 c’è un disperato bisogno di una politica coerente: vuoi basata sulla negoziazione di confini difendibili e riconosciuti (opzione assai improbabile, data la leadership palestinese), vuoi su un accordo ad interim che vada nella stessa direzione, vuoi sulla ripresa del processo volto a fissare i confini d’Israele in modo unilaterale. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli altri 93 parlamentari (su 120) che sostengono l’attuale coalizione di governo hanno la responsabilità di formulare una politica complessiva, anziché continuare a ondeggiare tra una crisi e l’altra. Nessuna delle opzioni sopra citate è l’ideale, ma non fare nulla e lasciare che altri impongano a Israele le loro mistificazioni e i loro interessi è certamente la peggiore opzione possibile. Dipendere dai miti post-’67 non è certo il modo giusto per determinare il destino della nazione. Più a lungo si aspetta, più saranno grandi le difficoltà e alti i costi.
DOCUMENTAZIONE
UN ERRORE STORICO, UN OSTACOLO POLITICO, UN NONSENSO LOGICO «Parlare di confini del ’67 porta necessariamente con sé l’impressione che qualunque assetto che si discosti da quelle linee non possa che essere eccezionale, transitorio, in qualche modo sbagliato e innaturale. E dunque bisognerà ricordare che gli unici confini internazionali d’Israele sono quelli con Egitto, Giordania e Libano, mentre le linee armistiziali del 1949, esse sì provvisorie, che separavano la Cisgiordania da Israele non sono mai diventate confini permanenti né riconosciuti: men che meno dagli stessi stati arabi, i quali insistettero affinché nel testo degli armistizi fosse esplicitamente scritto che “le linee di demarcazione non sono in alcun modo concepite come frontiera politica o territoriale e non pregiudicano i diritti, le rivendicazioni e le posizioni delle parti circa la composizione finale della questione palestinese”. Così l’art. V comma 2 dell’Accordo d’Armistizio Israelo-Egiziano del 24 febbraio 1949. L’intero Accordo è definito del tutto ininfluente riguardo ad ogni aspetto della futura composizione politica del conflitto dall’art. IV comma 3. Identico concetto è ribadito nell’art. II comma 2 dell’Accordo con il Libano (23 marzo 1949), nell’art. II comma 2 dell’Accordo con la Giordania (3 aprile 1949), e negli artt. II comma 2 e V comma 1 dell’Accordo con la Siria (20 luglio 1949). Se invece, sia in sede politica che didattica, si continua a parlare di confini del 67, diventa poi difficile spiegare lo spirito e la lettera della Risoluzione Onu 242 (1967), e spiegare come mai tutte le rilevanti proposte di composizione territoriale – dagli accordi di Oslo degli anni ’90, ai piani di Camp David del luglio 2000, ai punti di Bill Clinton del dicembre 2000, alle offerte di Taba del gennaio 2001 – si basano sul principio che il futuro confine fra Israele e vicini arabi non è già stabilito. Lo stesso accordo “virtuale” di Ginevra firmato da private personalità israeliane e palestinesi nel dicembre 2003 – la proposta di compromesso forse più avanzata che sia mai stata formulata – prevede spostamenti del confine rispetto alla Linea Verde del 1949-67. D’altra parte, come potrebbero le parti concordare un futuro confine che risponda quanto più possibile alle rispettive esigenze (sicurezza, omogeneità demografica, continuità territoriale ecc.) se quel confine fosse già stabilito sulle mappe politiche e diplomatiche dall’arbitraria linea di un cessate il fuoco di sessant’anni fa? A che servirebbe dunque il negoziato? Chiamare confine quella linea è un errore storico, un ostacolo politico e un nonsenso logico. Averlo fatto per decenni, in ogni sede politica e giornalistica, non lo rende meno insensato.»
[Da: Marco Paganoni, “Insegnare la storia d’Israele. Riflessioni preliminari sull’esperienza con studenti italiani”, in: AA. VV., Il mio cuore è a oriente. Studi di linguistica, filologia e cultura ebraica, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano, 2008]
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